VITA UMANA NELLA S. SCRITTURA IL RESPIRO DELL’UOMO DI CARNE
Autor: Gianfranco Cardenal Ravasi
Introduzione
1. Asserti antropologici
2. La neshamah, “fiaccola del Signore”
3. “Secondo il selem di Dio lo creò”
4. “Sono state le tue mani a plasmarmi...”
5. “Fin dal grembo materno mi ha chiamato”
6. Scienza e fede
Conclusione
Bibliografía
Introduzione
“Nella sua mano Dio stringe l’anima di ogni vivente e il respiro dell’uomo di carne”. Vorrei assumere questo suggestivo versetto del libro biblico di Giobbe (12, 10) a emblema per la nostra riflessione di indole generale e di impronta teologica sulla vita umana.
1. Asserti antropologici
E’ necessario formulare subito un primo asserto antropologico di ordine generale: per la Bibbia nell’uomo si configura un’intima connessione e compenetrazione tra fisicità e interiorità. Si tratta di una visione “simbolica” in senso stretto che non oppone dualisticamente una carnalità materiale, caduca e insignificante, a una spiritualità trascendente e superiore, ma che considera l’essere intero come oggetto della creazione e della gloria, come un vero e proprio “prodigio” (Salmo 139, 14). Questa concezione è di taglio squisitamente filosofico-teologico, pur ancorandosi a modelli scientifici delle civiltà dell’antico Vicino Oriente. Da essa possono promanare due corollari.
Innanzitutto si può certamente segnalare il rischio di una “confusione” degli approcci alla realtà umana, fondendo nello stesso alveo l’analisi “scientifica” e quella fìlosofìco-teologica, con evidente prevalenza della seconda, in una cultura a matrice teocratica. La moderna distinzione degli statuti delle singole discipline non apparteneva a quell’orizzonte unificato. In secondo luogo, però, si fa strada una conseguenza capitale, che è ribadita da tutte le grandi esperienze religiose e che è espressione di un alto umanesimo. L’essere umano non può essere considerato solo come un mero dato biologico o come una figura angelica. La sua grandezza si rivela in questo mirabile intreccio tra verificabilità contingente e legame con un Oltre, tra anatomia e sapienza, per usare un suggestivo binomio del filosofo Lévinas.
C’è, però, un secondo asserto antropologico di impianto nettamente teologico (anch’esso condiviso, in forme differenti, dalle varie espressioni religiose): per la Bibbia nell’uomo si configura un’intima correlazione tra creatura umana e Creatore, tra uomo e mistero, tra finitudine e trascendenza. Dati i limiti molto ristretti e il profilo sintetico della nostra riflessione, ci accontentiamo di offrire solo alcuni indizi esemplificativi.
Parlando, poi, dell’uomo nella Bibbia, è inevitabile affrontare la questione dell’anima, che verrà discussa nel corso delle prossime sedute. Ora, è un’impresa ardua è quella di isolare la realtà dell’anima nell’antropologia biblica perché, da un lato, vige nelle pagine sacre quella che è ormai definita come l’“unità psicofisica” della persona che intreccia inestricabilmente e inscindibilmente corporeità e spiritualità, mentre d’altro lato, la dimensione “spirituale” di questa stessa unità è espressa attraverso un lessico molto articolato dalla iridescenze semantiche mutevoli. Si pensi, ad esempio, che il termine nefesh, di solito reso in greco con psychè, “anima”, contemporaneamente significa l’essere individuale e la gola, mentre rûah, “spirito vitale”, è anche il “respiro” e il “vento”. Noi cercheremo allora di affidarci solo ad alcuni lemmi e temi per definire sinteticamente e in modo semplificato l’equivalente biblico della categoria teologica “anima”. In pratica per la Bibbia questa realtà corrisponde non tanto a un principio antropologico quanto piuttosto all’affermazione della trascendenza della persona umana.
2. La neshamah, “fiaccola del Signore”
Nel secondo racconto della creazione presente nella Genesi (cc. 2-3), probabilmente il più antico rispetto a quello del c. 1, racconto attribuito alla cosiddetta “Tradizione Jahvista” (forse X sec. a.C.), si leggono queste parole: “Il Signore Dio plasmò l’uomo [’adam] con polvere della terra [’adamah], soffiò nelle sue narici una nishmat-hajjîm e l’uomo [’adam]divenne una nefesh hajjah” (Gn 2,7). Non abbiamo tradotto le locuzioni che più strettamente toccano il tema dell’anima e che sono di difficile resa. Come è evidente, il versetto in poche ma pertinenti e accurate parole delinea la creazione dell’uomo. Iniziamo la nostra analisi dal primo elemento simbolico, la polvere della terra.
Si noti anzitutto il giuoco di parole che intercorre tra ’adam, uomo, e ’adamah, terra: i due termini alla base hanno la stessa radice ebraica ’dm che evoca il colore ocra dell’argilla del suolo. L’immagine è ulteriormente esaltata dal simbolismo del vasaio suggerito dal verbo indicante l’azione creatrice divina, il “plasmare”. L’idea nel suo insieme è limpida: l’uomo ha un legame costituzionale con la materia, con il creato che lo circonda. E’ questo il segno della sua fragilità, della sua finitudine, del suo limite, della sua mortalità. L’immagine “plastica” per descrivere la creazione dell’uomo e definirne la “materialità” o “carnalità” debole e inconsistente, la sua limitatezza nel tempo e nello spazio, è frequente nell’Antico Testamento e ha variazioni suggestive, come quella di tipo nomadico-pastorale del cacio plasmato o quella tessile, sulle quali tornerò più tardi parlando dell’embrione.
Tuttavia, oltre al legame con la materia e quindi oltre ad essere una creatura finita e limitata, l’uomo ha un’altra qualità, il principio vitale. Entra, infatti, in gioco un nuovo simbolismo, quello dell’insufflazione nelle narici per introdurre il respiro, simbolismo comune ad altre culture dell’antico Vicino Oriente e non solo a esse: “Il Signore Dio soffiò nelle narici” dell’uomo appena “plasmato”. In pratica, sia pure senza usarlo, l’autore sacro introduce l’altro vocabolo antropologico caratteristico, rûah, lo spirito vivificatore. Si legge, infatti, nel Salmo 104, 30: “Mandi il tuo spirito, ed essi sono creati”. La base simbolica della parola rûah è appunto il “vento”, che ben esprime il soffio vitale dell’uomo, il suo respiro. In senso stretto quella insufflazione divina è destinata anche agli animali, che posseggono essi pure la rûah, il respiro della vita, come appare in una pagina apparentemente sconcertante e provocatrice del sapiente biblico Qohelet-Ecclesiaste, pagina in realtà più tradizionale di quanto sembri a prima vista:
Io ho pensato in cuor mio riguardo agli uomini: Dio li prova, perché vedano da soli di essere come le bestie. Infatti il destino degli uomini e il destino delle bestie è un unico destino: come muoiono queste, così muoiono quelli, in tutti c’è un’unica rûah. L’uomo non è superiore alla bestia. Sì, tutto è vuoto! Tutti piombano nell’unico luogo: dalla polvere tutto è venuto, alla polvere tutto ritorna. Chi sa se la rûah dell’uomo sale in alto e la rûah della bestia piomba in basso nella terra? (Qo 3, 18-21).
L’idea è ribadita dallo stesso Qohelet in finale al suo scritto: “La polvere ritorna alla terra come lo era prima, e la rûah a Dio che l’ha data” (12,7). Una simile concezione appartiene al patrimonio comune dell’Antico Testamento (Sal 104, 29; 146, 4; Gb 33, 4; 34, 14-15; Sir 17, 1-2). Ma a questo punto nel versetto della Genesi in esame, il 2, 7, c’è un terzo elemento: il Creatore, oltre alla rûah della vita, insuffla un altro principio che è definito in ebraico come nishmat-hajjîm che di solito è tradotto con “alito di vita”: si avrebbe allora, solo un sinonimo di rûah, al massimo un modo per indicare che la vita umana ha una qualità specifica e superiore. In realtà, qui ci imbattiamo con qualcosa che più ci avvicina al nostro concetto di “anima”. La neshamah/nishmat, è, infatti, una realtà che nelle ventiquattro volte in cui è evocata nell’Antico Testamento è attribuita soltanto a Dio e all’uomo e mai agli animali e copre una serie di funzioni alte, che sono spesso in connessione con Dio. E’ attraverso di essa che l’uomo compie “atti spirituali” e riceve uno statuto particolare nell’ordine della creazione. La nishmat-hajjîm (hajjîm in ebraico è “vita”) lo porta all’esistenza ma soprattutto lo rende “intelligente” (Gb 32, 8).
Che cosa sia realmente questo principio è spiegato in un passo del libro dei Proverbi ove si legge: “La neshamah dell’uomo è una fiaccola del Signore che scruta tutti i recessi oscuri del ventre” (20, 27). L’immagine usata è molto semitica e ha colori barocchi, ma è chiara nel suo valore: la neshamah/nishmat-hajjîm è come una lampada ulteriore che rischiara l’intimo più segreto dell’uomo, simboleggiato dalle “camere o recessi oscuri” del grembo. Fuor di metafora, si ha una rappresentazione dell’autocoscienza, della capacità di conoscersi e di giudicarsi, dell’introspezione e dell’intuizione e, in ultima analisi, della moralità. Non per nulla, in altri passi biblici (Gb 4, 9; 2 Sam 22, 16; Sal 18, 10; Is 30, 33), la neshamah/nishmat-hajjîm è collegata all’atto giudiziario divino nei confronti del male e dell’ingiustizia. Non per nulla, nel racconto successivo della Genesi, si avrà un’ampia riflessione proprio sul peccato “originale” e sulla scelta umana nei confronti della “conoscenza del bene e del male” (in particolare il capitolo 3).
Siamo, dunque, in presenza di un elemento specificante per l’interiorità della persona umana: essa appartiene al mondo animale non solo nella sua caducità, ma anche per il dono della rûah, cioè della vita; però si distingue dal mondo animale per la coscienza, per la libertà e moralità, per quella nishmat-hajjîm che la collega in modo unico al Creatore. Come si ribadirà nel libro di Giobbe, “la rûah di Dio mi ha creato”, ma è “la nishmat nell’Onnipotente a darmi la vita” umana (33, 4). Non siamo di fronte, però, a una realtà “spirituale” sul modello greco, bensì a una qualità che rende l’uomo simile al Dio libero e morale. In questa linea il Concilio Vaticano II nel suo documento sulla “Chiesa nel mondo contemporaneo”, cioè la costituzione Gaudium et spes, dichiara in modo illuminante che “la coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo”, è la sede in cui l’uomo “si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria”. Una voce che “lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male e, quando occorre, dice chiaramente alle orecchie del cuore: fa’ presto, fuggì quest’altro” (n. 16).
L’uomo limitato, vivente, cosciente, conclude il passo di Genesi 2, 7, è una nefesh hajjah: è evidente che quest’ultima espressione non può essere intesa come “anima vivente”, bensì come “essere vivente” o semplicemente come persona. La parola nefesh non è quindi il termine specifico per indicare l’anima, come di solito si afferma. Tuttavia è adatta a indicare la realtà umana nella sua globalità e specificità. Raccogliamo, allora, tutti i lineamenti offerti dal nostro versetto per comporre il ritratto dell’uomo. Egli è “plasmato” dalla terra, è ’adam perché tratto dall’’adamah: questa origine lo rende limitato e caduco come la materia; per usare il linguaggio biblico, è basar, “carne” fragile e peritura. Riceve, però, il soffio della vita, la rûah, quello “spirito” che lo inserisce nell’orizzonte delle creature viventi. L’uomo ha un’ulteriore dimensione che gli è donata dal Creatore e che, per certi versi, a lui lo accomuna: è la nishmat-hajjîm, la coscienza vitale, la consapevolezza di sé, la capacità di distinguere il bene dal male e la libertà di scegliere moralmente.
3. “Secondo il selem di Dio lo creò”
Passiamo ora al secondo testo emblematico da esaminare. Esso è collocato all’interno del primo racconto della creazione, la pagina che è “in principio” alla Genesi (capitolo 1) e quindi all’intera Bibbia, pagina considerata però dall’esegesi moderna più recente rispetto alla seconda a cui abbiamo già fatto riferimento (Gn 2-3): essa, infatti, è ricondotta alla cosiddetta “Tradizione Sacerdotale” che sarebbe sorta durante l’esilio a Babilonia, nel VI secolo a.C. Il versetto da noi scelto suona così: “Dio creò l’uomo a sua immagine (selem); a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò” (Gn 1, 27). Come in Genesi 5, 3 si afferma che “Adamo generò a sua immagine e somiglianza un figlio e lo chiamò Set”, così qui si indica che c’è un legame specifico e “naturale” che intercorre tra il Creatore e la sola creatura umana. Anche gli animali hanno la vita e sono nefesh hajjah, ossia esseri viventi (Gn 1, 21), ma non hanno in sé questa dimensione dell’“immagine” (selem).
Ora, il termine ebraico selem denota una vicinanza oggettiva al soggetto rappresentato; rimanda, quindi, a una corrispondenza “naturale” con Dio, che rende l’uomo capace di comprenderlo e di interloquire con lui; è un vincolo intimo simile a quello che intercorre tra un padre e un figlio. E’ interessante inoltre notare che, mentre nell’antico Vicino Oriente essere “immagine” divina era appannaggio e prerogativa solo del sovrano, per la Bibbia destinatario di questa qualità è l’uomo e tale “democratizzazione” mostra che la regalità sul mondo è assegnata da Dio all’uomo in quanto tale, come si dice nel Salmo 8, 6-7: “Di gloria e di onore lo hai coronato, gli hai dato potere sulle opere delle tue mani”. Ma a questo punto sorge la domanda fondamentale: in che cosa consiste questo legame tra il Creatore e la creatura umana? Che cosa significa nella realtà questo essere “immagine” di Dio? La risposta più comune fin nell’antichità cristiana fu quella di intuire in questa “immagine e somiglianza” il riconoscimento biblico dell’anima. Sant’Agostino non esitava a scrivere in modo chiaro e sicuro nella sua opera La Genesi alla lettera:
Che l’uomo sia fatto a immagine di Dio viene detto a causa della parte intima dell’uomo, ove ha sede la ragione e l’intelletto. L’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio soprattutto per quanto riguarda l’anima.
L’esegesi moderna è, al riguardo, molto più cauta e parla più genericamente – come afferma un teologo – di “una similitudine generale di natura: intelligenza, volontà, potenza; l’uomo è persona. E così si prepara una rivelazione più alta: la partecipazione di natura per mezzo della grazia”. In realtà, bisogna ritornare al testo nella sua diretta capacità di esprimersi. Infatti, se noi osserviamo attentamente la stessa costruzione del versetto, ci accorgiamo che esso è impostato secondo i canoni della stilistica ebraica che privilegia il parallelismo tra i membri di una frase o di un versetto. Nel caso di Genesi 1, 27 ci troviamo di fronte a un cosiddetto “parallelismo chiastico progressivo” che possiamo così visualizzare:
L’occhio attento non può ignorare che “immagine di Dio” ha come sorprendente parallelo esplicativo “maschio e femmina”. Dio, allora, è sessuato, e accanto a lui si asside una compagna divina, come l’Ishtar-Astarte babilonese? La risposta è ovviamente negativa, sapendo quanto e con quanta asprezza la Bibbia abbia polemizzato contro le ierogamie, cioè le nozze e le coppie sacre divine, e contro i culti della fertilità diffusi nell’area cananea e in tutto l’antico Vicino Oriente. L’“immagine” divina stampata nell’uomo è da cercare altrove. Allunghiamo, allora, lo sguardo su tutta la Genesi, inseguendo quelle pagine che sono attribuite alla stessa Tradizione a cui appartiene il nostro versetto, ossia alla scuola detta “Sacerdotale” perché da ricondurre a circoli sacerdotali presenti tra gli ebrei esuli a Babilonia. Il buon osservatore vede una vera e propria catena di genealogie, di generazioni, distesa come una trama su cui vengono fatti poi scorrere i vari eventi narrati (si leggano questi passi: Genesi 1, 28; 2, 4; 9, 1.7; 10; 17, 2.6.16; 25, 11; 28, 3; 35, 9.11; 47, 27; 48, 3-4).
La relazione interpersonale, principio d’amore, e il frutto di vita che essa genera, sede delle epifanie storiche divine, diventano il nesso che collega Dio e umanità e che rendono trascendente la creatura umana. Per la Bibbia, allora, l’ominizzazione piena avviene solo dove ci sono uomo e donna in relazione tra loro, una relazione di parità, di armonia, di comunione. E’ illuminante il giuoco di parole che si legge in Genesi 2, 23. L’uomo, quando si trova di fronte alla sua donna, esclama: “Questa volta, sì, essa è carne della mia carne e osso delle mie ossa. La si chiamerà ’isshah perché da ’ish è stata tratta”. E’ evidente l’assonanza tra i due termini, l’uno al maschile ’ish, uomo, e l’altro al femminile, ’isshah, donna, espressione nitida e netta della parità, pur nella diversità, anche perché comuni sono la “carne e le ossa”, simbolo del tessuto esistenziale e vitale. Possiamo, allora, affermare che la specificità della creatura umana è nell’amore. L’anima propria dell’essere umano, che lo raccorda a Dio, non è solo nella coscienza (nishmat-hajjîm), ma anche nella capacità di amare e generare, espressione della nostra “immagine” divina. Come scriveva il filosofo e scrittore russo Valdimir Solov’ëv (1853-1900), “ogni uomo racchiude in sé l’immagine di Dio e questa immagine è da noi riconosciuta in modo teorico e astratto nella ragione e attraverso la ragione. Ma è nell’amore che la riconosciamo e la manifestiamo in modo concreto e vitale”.
4. “Sono state le tue mani a plasmarmi...”
La nostra analisi si restringe ora, dal fondale più vasto da cui siamo partiti, al nucleo germinale della generazione umana. Alla sua sorgente c’è l’atto generativo della coppia che il libro della Sapienza rappresenta mettendo in bocca a Salomone queste parole:
“Anch’io sono un uomo mortale come tutti, discendente dal primo essere plasmato dalla creta. Fui formato di carne nel seno della madre, durante dieci mesi (lunari)consolidato nel sangue, frutto del seme di un uomo e del piacere compagno del sonno” (Sap 7, 1-2).
Nell’atto generativo la Scrittura riconosce, però, non solo un dinamismo biologico ma anche una presenza efficace creativa e quindi un sigillo trascendente. La creatura umana è destinataria di un intervento divino fin dalle origini perché essa è collocata all’interno di un disegno esistenziale personale. Il suo germinare è finalizzato non solo a essere creatura umana ma anche a essere partecipe attiva di un progetto futuro. Si scoprono, così, quasi due azioni divine – in realtà unitarie e intrecciate tra loro – che hanno lo scopo di rivelare l’opera del Creatore e l’opera del Salvatore, cioè di colui che accende la vita umana e di colui che la orienta verso uno sviluppo e un destino.
Questi due momenti che fanno parte della stessa vicenda antropologica sono splendidamente illustrati da una strofa del Salmo 139, un solenne inno al Dio infinito, onnisciente, onnipotente. Iniziamo con la prima componente, quella della creazione e della fase prenatale, che è affidata allo sguardo e all’azione penetrante di Dio: “Sei tu che hai creato i miei reni, mi hai intessuto nel grembo di mia madre... Il mio scheletro non ti era nascosto quando fui confezionato nel segreto, ricamato nelle profondità della terra. Anche il mio embrione i tuoi occhi l’hanno visto”. La simbolica usata è suggestiva ed è quella tessile: sull’intelaiatura dello scheletro si tesse il rivestimento della carne e della pelle.
L’azione divina è raffigurata anche con altre immagini. Curiosa è quella introdotta da Giobbe che, oltre al simbolismo tessile e a quello “plastico” del vasaio che plasma la creta, ricorre all’attività casearia beduina: “Sono state le tue mani a plasmarmi e a modellarmi in tutto il mio profilo... Come argilla mi hai plasmato, mi hai colato come latte e fatto cagliare come cacio; mi hai rivestito di pelle e di carne; mi hai intessuto di ossa e di tendini” (10, 7-10). L’immagine è “un’analogia che serve a descrivere il fiotto di sperma di color latteo che entra nell’organo femminile e il formarsi, a seguito dell’inseminazione, di un corpo embrionale” (H. W. Wolff). Secondo l’antica fisiologia orientale si riteneva che l’embrione si formasse dal seme maschile in combinazione col sangue mestruo della donna!
Nel Salmo sopra evocato si ha anche un termine ebraico rarissimo, golmî, che indica qualcosa di arrotolato o cilindrico: è la denominazione simbolica di quello che noi chiamiamo “embrione” (si ricordi il Golem, l’essere mostruoso, prodotto magico di laboratorio, protagonista di racconti fantastici della successiva tradizione giudaica). Nel grembo materno c’è, quindi, una presenza efficace di Dio che interviene nella formazione dell’essere umano. E’ una specie di creatio continua che vede nella concezione e nello sviluppo dell’embrione la partecipazione del Creatore che ha finalizzato la creatura verso la sua pienezza. Come scriveva Gregorio di Nissa, Padre della Chiesa del IV secolo: “Il seme, prima informe, si organizza e cresce sotto l’effetto dell’arte ineffabile di Dio”. E’ una pienezza non solo fisiologica ma anche esistenziale.
5. “Fin dal grembo materno mi ha chiamato”
Essa è così formulata dal citato Salmo 139, 16: “Nel tuo libro erano già tutti scritti i giorni che furono formati quand’ancora non ne esisteva uno”. Il passo è potente nella sua forza evocatrice e allusiva. Tutti i giorni e le azioni, cioè il destino storico dell’uomo, sono iscritti già nel “libro della vita” di Dio. Come scriveva Salvatore Quasimodo (1901-1968) nella poesia Al tuo lume naufrago, “Tu mi hai guardato dentro/ nell’oscurità delle mie viscere”. L’esistenza umana è plasmata e prefigurata proprio come è già plasmata e configurata la struttura psicofisica dell’individuo. Dio delinea i giorni dell’uomo prima ancora che essi esistano. Al Creatore non solo non è celato o estraneo quel piccolo germe di vita che è il feto, ma egli è anche capace di perlustrare da signore il futuro che ancora non è. In questa prospettiva si intuisce che per la Bibbia la finalità dell’embrione è netta: si tratta di un’unità inscindibile, di un processo unitario e coerente, compatto e armonico con la meta da raggiungere, quella della persona umana.
Creatura “impastata” di finitudine e di trascendenza, radicata al contingente ma affacciata sul mistero, l’uomo è oggetto, in tutto l’arco del suo esistere, di un’azione creatrice divina che lo finalizza non solo a essere una realtà psico-fisica ma anche a compiere una sua missione personale, all’interno del piano divino di redenzione e di salvezza. E’ per questo che tutte le grandi culture hanno adottato nella definizione e nella comprensione dell’uomo non solo la via fisica ma anche quella metafisica, non solo la via formale ma anche quella simbolica, non solo la verifica ma anche lo stupore, come è suggestivamente espresso in un paragrafo del romanzo La cripta dei cappuccini dello scrittore ebreo mitteleuropeo Joseph Roth (1894-1939): “Nell’istante in cui potei prendere tra le braccia mio figlio provai un lontano riflesso di quella ineffabile sublime beatitudine che dovette colmare il Creatore il sesto giorno quando egli vide la sua opera imperfetta pur tuttavia compiuta. Mentre tenevo tra le braccia quella cosina minuscola, urlante, brutta, paonazza, sentivo chiaramente quale mutamento stava avvenendo in me. Per piccola, brutta e rossastra che fosse la cosa tra le mie braccia, da essa emanava una forza invincibile”.
6. Scienza e fede
Considerata la prospettiva teorica generale del nostro discorso, non abbiamo voluto entrare nel merito specifico della connessione-collisione tra scienza e fede. Ne vogliamo, però, fare cenno in finale con una nota che prende spunto proprio dai capitoli iniziali della Genesi che sembrano essere in antipodo con la moderna antropologia scientifica: pensiamo solo all’evoluzionismo e al poligenismo. Certo, l’autore del libro biblico si appellava sicuramente a un modello scientifico fissista e monogenista. Ma lo scopo del suo discorso non era quello di rispondere alla domanda scientifica “Che cosa è successo alle origini del cosmo e dell’uomo?” quanto piuttosto al quesito teologico: “Che senso ha l’uomo nel cosmo e in se stesso?”. La sua è un’analisi non di astrofisica o di paleoantropologia, ma di filosofia e di teologia, di “sapienza”. Egli è teso a definire il segreto della libertà della creatura umana, le sue relazioni esistenziali basilari. Come ha dichiarato anche Papa Giovanni Paolo II, il testo biblico, attraverso la sua antropologia e cosmologia narrativa, vuole “porre l’uomo creato, fin dal primo momento della sua esistenza, di fronte a Dio alla ricerca della definizione di se stesso, della propria identità”. Già sant’Agostino nella sua De Genesi ad litteram affermava: “Non si legge nel vangelo che il Signore avrebbe detto: Vi manderò il Paraclito che vi insegnerà come vanno il sole e la luna. Voleva formare dei cristiani, non dei matematici”.
Oscar Wilde (1854-1900) era giustamente convinto che “a dar risposte sono capaci tutti, per far domande giuste ci vuole un genio”. Ebbene, bisogna interrogare la Bibbia in modo corretto per non costringerla a risposte che non vuole offrire e che solo artificiosamente le possiamo strappare. L’“inerranza” delle Scritture non riguarda la scienza ma gli asserti religiosi. O meglio, la “verità” che ci vuole comunicare non è di tipo scientifico ma teologico, come ha sottolineato il Concilio Vaticano II: “I libri della S. Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, a causa della nostra salvezza, volle che fosse consegnata nelle Sacre Lettere” (Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione, Dei Verbum n. 11). Aveva, allora, ragione Galileo quando scriveva all’abate benedettino pisano Benedetto Castelli che “l’autorità dello Spirito Santo ha avuto di mira a persuader agli uomini su quelle verità che, essendo necessarie alla loro salvezza e superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo essere conosciute se non per bocca dello stesso Spirito Santo”.
Certo, la tentazione dello sconfinamento è forte, anche perché identico è l’oggetto, cioè l’universo e l’umano: il teologo spesso è stato tentato di pronunziare verdetti di tipo scientifico e lo scienziato di irridere tesi religiose. Uno scienziato, che è al contempo un ecclesiastico, Fiorenzo Facchini, ha cercato di porre i paletti di frontiera, almeno quelli più generali. “Gran parte degli equivoci sul problema delle origini – ha scritto – è sorta dalla pretesa di negare ciò che la scienza non può dirci (la dimostrazione dello spirito) o di far dire alla Bibbia quello che essa non vuol dirci (contenuti di ordine scientifico). Ai due interlocutori vanno posti quesiti che rientrano nel loro ambito. Alla Bibbia sul perché dell’esistenza, alla scienza sul dove, come, quando si è formata la vita… La vera alternativa non è tra evoluzione e creazione, ma tra visione di un mondo in evoluzione, dipendente da Dio creatore secondo un suo disegno, e visione di un mondo autosufficiente, capace di crearsi e di trasformarsi da sé per eventi puramente immanenti”.
Conclusione
I racconti biblici della creazione dei capitoli 1-3 della Genesi, differenti ma complementari tra loro, sono dunque un potente affresco dell’esistenza umana nei suoi splendori e nelle sue miserie. Sono un’“eziologia” teologica, cioè una “ricerca delle cause” che stanno alla radice del nostro essere uomini e donne liberi. Non per nulla il protagonista di queste pagine non porta un nome proprio bensì un nome comune: Ha-’adam in ebraico significa “uomo” e, come indica l’articolo (ha-), è il nome di tutte le creature umane. Perciò, come è stato scritto da un teologo, Adamo è mio padre, mio figlio e sono io. E’ l’umanità collocata all’interno dell’universo, una “canna fragile” – secondo la celebre immagine di Pascal – ma capace di pensare, di agire liberamente, di gioire e di soffrire, di incontrare e conoscere, sfidare e amare il suo Creatore.
Bibliografía
Nella voce presentata precedentemente, il lettore trova ampia e ricca bibliografia sul tema, indicate nelle citazioni
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Ravasi,Gianfranco, VITA UMANA NELLA S. SCRITTURA, en García, José Juan (director): Enciclopedia de Bioética.