LO HUMAN ENHANCEMENT
Autora: Francesca Giglio
ÍNDICE:
1. Inquadramento
2. Il dibattito
3. L’enhancement alla luce dell’antropologia
4. La distinzione fra enhancement e terapia
5. Alcune questioni rilevanti per la riflessione etica:
5.1 Il problema del rischio
5.2 I problemi dell’autonomia e della giustizia
6. Conclusione
NOTE
BIBLIOGRAFIA
- Inquadramento
Se, da un lato, la medicina ha perseguito da sempre il fine di preservare e ripristinare la salute come naturale e normale integrità dell’organismo umano, di recente, invece, si è fatta strada l’idea che l’intervento medico possa perseguire obbiettivi ulteriori rispetto la semplice cura e restituzione della salute: il ruolo originario della medicina, la restituito ad integrum, va ampliandosi verso una sequela di ambiti diversi dalla salute tradizionalmente intesa, come la sessualità, il comportamento, l’aspetto estetico, le prestazioni intellettuali, lo sport, con l’unico fine del miglioramento del benessere individuale. La trasformatio ad optimum passa attraverso le diverse promesse prospettate dal progresso biomedico e più in generale tecno-scientifico: la genetica applicata, le nanotecnologie, le neuroscienze e le scienze informatiche sono solo alcuni degli ambiti che promettono di incrementare capacità e caratteristiche umane di tipo fisico, cognitivo, emotivo e comportamentale, annunciando un miglioramento della condizione umana globalmente intesa, in un’unica espressione human enhancement.
Il termine fa la sua comparsa nella letteratura scientifica[1] in varie fasi, specie negli ultimi decenni, in cui è possibile notare come progressivamente ne cambi l’uso. Più generalmente, infatti, il termine enhancement fa riferimento a quello di miglioramento in termini di “incremento” o “aumento" (increase, augmentation, improvement) di determinate attività. Utilizzato prevalentemente nei diversi campi della genetica, della farmacologia e della bioingegneria esso indica abitualmente valutazioni espresse in termini quantitativi. L’estensione, tuttavia, del termine alla valutazione di aspetti qualitativi in cui il “più” quantitativo diventa spesso sinonimo di “meglio” qualitativo, comporta, come vedremo, il progressivo offuscarsi della differenza tra interventi terapeutici e migliorativi.
Se le prime considerazioni sulle implicazioni etiche delle possibilità di enhancementumano, mediante l’applicazione di determinate biotecnologie, fecero la loro comparsa già negli anni Settanta del secolo scorso in concomitanza con il progresso delle tecniche di terapia genica, dai nei primi anni Duemila è possibile assistere alla pubblicazione di alcuni testi che hanno segnato la nascita di un dibattito specifico sullo human enhancement. Fra questi Our Posthuman Future (2002) di Francis Fukuyama, in cui l’Autore esprime la grave preoccupazione per le possibili conseguenze del potenziamento per via biotecnologica, specie se spinto sino alle estreme conseguenze del superamento della natura umana, prospettiva fondante le varie correnti di pensiero di stampo transumanista e postumanista. Un report del 2003 del President’s Council Bioethics intitolato Beyond Therapy. Biotechnology and the Pursuit of Happiness sembra seguire la scia dei timori già espressi da Fukuyama o dal contemporaneo Better than Well di Elliott[2] in cui si analizzano le possibili derive del fenomeno presente in America della massiccia medicalizzazione diffusa fra gli Americani allo scopo di ottenere a “better children, superior performance, ageless bodies, happy souls”[3].
Se molte sono state, e continuano ad essere, le voci turbate dall’uso delle bioetecnologie e di altri mezzi di natura medica a fini “oltre la terapia”, molteplici sono coloro che, invece, hanno accolto con grandi entusiasmi l’idea di un potenziamento umano. Il tema dell’enhancement è, infatti, strettamente correlato a quello della “convergenza tecnologica”: nel 2002 un report semi-ufficiale della National Science Foundation e del Department of Commerce in the United States intitolato Converging Technologies for Improving Human Performance[4] diede forte impulso alla discussione internazionale sul potenziamento. Con l’espressione “convergenza tecnologica” si fa riferimento alla combinazione sinergica di quattro settori scientifici in ampia espansione (nano-bio-info-cogno o “NBCI”) che annoverano nanoscienze e nanotecnologia, biotecnologia e biomedicina - inclusa l’ingegneria genetica -, la tecnologia informatica, e le scienze cognitive, incluse le neuroscienze. Questo documento riveste un’importanza cruciale poiché è possibile rintracciare in esso molti dei più importanti presupposti scientifici e filosofici, i mezzi, le applicazioni e le finalità dell’enhancement: la convergenza tecnologica è prospettata infatti nei termini di una vera e propria rivoluzione o come un “nuovo Rinascimento” che nel giro di vent’anni, secondo gli Autori, dovrebbe portare ad un’accelerazione esponenziale nel progresso umano. L’unificazione delle scienze si basa su quattro principi chiave: a) l’intera realtà è comprensibile secondo le leggi presenti già nella dimensione nanometrica: a partire da questa scala la scienza tecnologica può comprendere, controllare e riprodurre ogni struttura organica e inorganica; b) le NBCI aprono ad una radicale trasformazione dei mezzi intesi come metodi di analisi, nuovi strumenti e nuovi materiali; c) l’approccio scientifico unificato consente di capire il mondo circostante come sistema complesso e gerarchizzato; 4) le NBCI rendono possibile l’incremento delle performance umane, incluse abilità mentali, fisiche e sociali. Fine ultimo della convergenza tecnologica è un maggiore e nuovo benessere umano, in termini di crescita economica e produttività, sicurezza da disastri ambientali, incremento delle comunicazioni per maggiori prestazioni individuali e di gruppo, vite più sane e longeve, una radicale evoluzione umana. Questa sorta di “olismo scientifico” punta alla comprensione ed al controllo anche di ambiti dell’agire umano come l’arte, l’educazione, la cultura etc.: fra le strategie per la trasformazione indicate dal documento sono infatti comprese la diffusione e l’applicazione dei nuovi ritrovati tecnologici unite ad una sinergica educazione al progresso, anche per mezzo di nuovi modelli atti ad affrontare nuove istanze etiche e legali. Si tratta, tuttavia, di un olismo riduzionista poiché si tratta di un’unificazione fra scienze naturali e sociali secondo semplici connessioni causa-effetto fra livelli “immanenti” e “trascendenti”, su una linea di continuità fra la scala “nano” sino a quella “planetaria”.[5]
L’enhancement ha dato, quindi, adito ad un intenso dibattito che ha condotto di recente il Parlamento Europeo a redigere uno studio articolato del tema mediante il comitato STOA (Scientific Technology Options Assessment)[6], che si occupa delle valutazioni in tema di tecnologie: ha proposto un’articolata definizione di enhancement, fra le cui caratteristiche principali vi è l’estraneità a qualsiasi inquadramento culturale o ideologico, scelta congeniale all’adempimento degli obbiettivi del documento, ossia l’individuazione di criteri per un’analisi etica ed indicazioni per le politiche sociali. Lo STOA propone l’utilizzo di un concetto di enhancement che, peraltro, non sia correlato ad una specifica nozione di salute, poiché questa manca di una definizione ultima e universalmente condivisa. Il documento, perciò, distingue - terapie che non si possono considerare come enhancement poiché hanno come unico fine e risultato la restituitio ad integrum di uno stato precedente l’intervento (restorative non-enhancing therapies); - terapie mediche che hanno come fine o risultato il potenziamento (therapeutic enhancement); enhancement non terapeutico (non-therapeutic enhancement). La classificazione proposta non è scevra da problemi, poiché è difficile tracciare linee nette di demarcazione fra terapia e potenziamento, come noteremo in seguito: risulta tuttavia un valido tentativo per l’avanzamento delle coordinate atte ad individuare e descrivere l’oggetto in esame. Quanto ai mezzi da riconoscere come enhancement, lo STOA indica le HET, che, come detto, sembrano poter essere identificate con il complesso delle tecnologie convergenti, o NBCI . Per essere considerate tecnologie capaci di modificare la biologia umana, il documento specifica che esse debbano essere “robustamente impiantate” nel corpo e non si confondano con semplici device tecnologici esterni di uso comune. In tal senso lo STOA cita la classificazione proposta da Georg Khushf, il quale suddivide le tecnologie di potenziamento in “incremental enhancement” e “radical enhancement”. Se il primo – indicato temporalmente come step one - rappresenta un semplice aumento di grado nelle capacità umane e nei mezzi tecnologici finalizzato a supplire ai limiti delle stesse nel rapporto fra l’uomo e il mondo esterno ed è sempre esterno al corpo e reversibile, il secondo - step two - prevede un cambio di stato di funzioni e capacità, interno alla biologia umana e irreversibile. Diversi Autori distinguono fra alterazioni temporanee e alterazioni permanenti, identificando nelle seconde l’enhancement vero e proprio[7], caratterizzato - secondo lo STOA – da fini e interessi quali il miglioramento di una o più funzioni della fisiologia o dell’apparato cognitivo di un individuo, il miglioramento della specie, il benessere dell’umanità in senso olistico (riprendendo la terminologia dei sostenitori della convergenza tecnologica).
Tenendo conto dell’articolata definizione offerta dal comitato afferente al Parlamento Europeo possiamo, ad ogni modo, sintetizzare il concetto di enhancement come ogni tentativo, temporaneo o permanente, di superare limitazioni funzionali del corpo umano - o introdurre nuove funzioni - mediante l’utilizzo di tecnologie che possano alterare o selezionare attitudini o altre caratteristiche fenotipiche indipendentemente dal fatto che tali caratteristiche cadano o no in quello che è valutato come range di normalità.
Molteplici sono le tecnologie e gli interventi che ricadono sotto il cappello del potenziamento umano: fra queste possiamo annoverare ritrovati di origine chimica per l’enhancement fisico o per il miglioramento delle performance cognitive o della sfera emotiva, impianti neuronali o interfacce cerebrali, le modificazioni genetiche e le metodiche finalizzate all’allungamento della vita, campo del tutto peculiare per la sua complessità.
Ne offriamo alcuni esempi. L’ormone della crescita è utilizzato come migliorativo sul piano fisico: nonostante questo ormone sia utilizzato nelle terapie su bambini affetti da deficit nell’accrescimento, se applicato ad individui non patologici può essere considerato come enhancement fisico, in modo simile all’utilizzo di farmaci dopanti nello sport utilizzati per migliorare le performance.
Già molto diffusi sono i ritrovati chimici per l’alterazione della sfera emotiva in individui sani: il Prozac, farmaco antidepressivo, è utilizzato come forte energizzante, il Ritalin è largamente somministrato in bambini e adulti al fine di migliorare la concentrazione, mentre il Modafinil è capace di diminuire il fabbisogno di sonno. Lo Statunitense Carl Elliott nel 1998 divenne autore del testo Better than well: American medicine meets the American dream, nel quale, proprio preoccupandosi dell’uso massivo di questo tipo di farmaci, affermava: «by enhancement technologies I simply mean the idea of using medicine, or surgery, or other kinds of medical technology not just to cure or control illnesses but rather to enhance, or improve, human capacities and characteristics»[8]. L’Autore alludeva all’uso sempre più diffuso della medicina tradizionale a scopi estetici o di miglioramento di prestazioni legate all’umore e all’area cognitiva al fine di sentirsi “better than well”, fenomeno collettivo in ampia espansione nella medicalizzazione a largo consumo della società americana[9]: egli metteva in luce il fatto che la pratica medica avesse sempre avuto scopi ulteriori rispetto alla cura di patologie, ma la diffusione in epoca contemporanea, dettata anche da nuove prospettive scientifiche, era, e continua ad essere, motivo di allarme a livello prima di tutto culturale e sociale. Per questo molto di frequente con il termine enhancement risulta si designa qualsiasi trattamento di carattere medico o tecnologico a fini non terapeutici.
Per quanto non sia ancora possibile non tener conto degli ingenti rischi connessi agli impianti cerebrali, si è visto che la stimolazione elettrica continua del cervello, utile alla terapia di malattie neurologiche come il Parkinson, possa indurre significativi cambiamenti della sfera emotiva, il che fa ipotizzare che un utilizzo mirato della stimolazione possa essere esercitato a seconda delle preferenze individuali. Tali prospettive ad oggi troppo rischiose in futuro si crede potranno essere realizzate con l’utilizzo delle nano particelle.
Anche un ulteriore tipologia di impianti sperimentali ad oggi destinati al recupero di funzionalità compromesse come gli impianti cocleari per la sordità e retine artificiali e chips collegati a videocamere fanno ipotizzare la creazione di nuove capacità per l’uomo come ad esempio la vista ad infrarossi.
Un campo ad oggi molto meno promettente di quanto si fosse sperato è quello delle manipolazioni genetiche: la complessità, riscontrata anche nella clinica, dei fattori ambientali ed epigenetici rende assai remote le ipotesi di alterare caratteristiche o comportamenti umani.
Infine, l’ambito di metodiche afferenti all’allungamento della vita appare assai complesso e quindi del tutto peculiare: non è infatti possibile parlare di semplice allungamento della vita, poiché a tale processo si accompagnano diversi processi degenaritivi tipici dell’invecchiamento che comportano il peggioramento ed il declino di capacità e funzioni. Per questo motivo le ricerche ad oggi sono rivolte allo studio dei processi degenaritivi ed al mantenimento di una certa qualità di vita più che al mero allungamento di essa.
- Il dibattito
L’enhancement costituisce di certo un fenomeno ed un oggetto di analisi assai complesso e variegato: vi sono, infatti, modalità di potenziamento attualmente già in uso e apparentemente non troppo preoccupanti, come l’uso di farmaci per la concentrazione, così come esiste l’ipotesi del cyborg, o già si praticano forme intermedie come la selezione embrionale: il fine ultimo di uno studio sull’enhancement dovrà essere quello di fornire adeguati strumenti di distinzione e valutazione delle tecnologie singolarmente considerate. In generale, tuttavia, è possibile affermare che scopo dell’enhancement è quello di superare attraverso l’intervento tecnico su funzioni e capacità umane taluni limiti propri della condizione umana per garantire una vita migliore e più felice. L’estremizzazione di un tale approccio conduce al disegno transumanista di affrancamento dell’uomo dalla propria natura, in vista dell’evoluzione verso un nuovo essere non più uomo. Spesso, ormai, enhancement è diventato sinonimo di “transumanesimo”, ma l’identificazione di un certo uso della tecnologia con una precisa corrente di pensiero è quanto mai erroneo: meglio sarebbe indagare nelle radici e nelle strategie di tale movimento - o teoria - alcune fondamentali chiavi di lettura per comprendere la dimensione e certe finalità dell’enhancement.
Allo stesso modo è riduttivo designare i detrattori del potenziamento con il termine di “bioconservatori”, con cui viene posto l’accento sulla mera contrarietà da parte di questi ultimi ad eventuali alterazioni delle biologia umana con la quale viene identificato il concetto ben più complesso e ampio di “natura umana”. Leon Kass, Michael J. Sandel e il filosofo Habermas, pur con provenienze molto differenti, hanno posto l’accento sui danni che un approccio riduzionista potrebbe apportare ad una natura umana le cui dimensioni tanto fisiche quanto meta-fisiche venissero distorte e svuotate di senso. Essi denunciano la possibilità che venga perpetrata la violazione di una natura o di una naturalità che tuttavia esitano ad argomentare in maniera piena, rifacendosi piuttosto a più generici sentimenti di ripugnanza verso l’alterazione di quanto vi è di dato o di donato nella nostra natura.[10]
Che si parli di superamento dell’uomo o di miglioramento della vita umana, ad ogni modo lo stopping point del dibattito sull’enhancement è rappresentato da un ritorno alla questione antropologica: se in qualche modo l’uso delle tecnologie di potenziamento sia da considerarsi lesivo della dignità umana, o piuttosto possa apparire come un mezzo utile a dare maggior dignità alle condizioni di vita dell’uomo, ciò va chiarito cercando di comprendere quale significato abbia il potenziamento biotecnologico, sia in rapporto all’esperienza dell’uomo che, prima ancora, nel confronto con quanto in esso è naturale.
Questo primo punto rappresenta quindi un nodo dirimente e fondativo per l’analisi del problema. A seguire dalla riflessione antropologica, ulteriori questioni meritano poi attenzione e contribuiscono a disegnare le linee portanti del dibattito: esse sono la controversa distinzione fra trattamenti potenzianti e trattamenti terapeutici, il rischio legato all’applicazione delle HET e il rapporto fra i concetti di autonomia e giustizia e l’accesso alle tecniche potenzianti.
- L’enhancementalla luce dell’antropologia
Per ricomporre le fila delle questioni che dividono il dibattito intorno all’enhancement è opportuno ricondurre il tutto ai due quesiti principali e dirimenti, ossia se sia possibile cambiare o potenziare la natura umana, e se ciò sia moralmente – e antropologicamente – accettabile.
Il riferimento alla natura umana è, come detto, centrale in questo campo: tale concetto è infatti utilizzato come un criterio etico prioritario nel valutare l’applicazione delle HET sull’uomo.
Differenti nozioni di “natura” conducono, tuttavia, ad approcci del tutto dissimili, che possiamo ricondurre a posizioni, come detto, conservatrici, che si rifanno ad un concetto di natura sostanziale e fonte di normatività, e a posizioni riduttiviste o materialiste che svuotano la natura di ogni forza normativa.
Il filosofo inglese Allen Buchanan[11] illustra bene il secondo approccio nel rispondere alle obiezioni “conservatrici” - secondo le quali l’alterazione della natura è inaccettabile moralmente e che essa costituisce la nostra principale fonte normativa sul bene – sostenendo che il concetto di natura sia ormai vuoto e fuorviante per il dibattito stesso. L’Autore, in estrema sintesi, ritiene non esista alcuna essenza umana, ma che si possa parlare tutt’al più di un complesso organico sul quale è possibile valutare eventuali danni solo sul piano biologico e dal quale non si possa inferire nulla sul piano metafisico: ne consegue che l’enhancement sia in grado di agire solo sulla nostra natura biologica e non abbia alcuna ricaduta sull’”essenza” dell’uomo.
Una simile interpretazione della natura in chiave descrittiva come semplice collazione di dati biologici ed esperienziali privi di forza normativa è ancor meglio esplicitata da Arthur Caplan[12] che, in riferimento alla “legge di Hume”, afferma che gli “antimiglioristi” compiono l’errore concettuale di ritenere che il modo in cui siamo sia quello in cui dovremmo essere: secondo l’Autore la nostra condizione, il modo in cui noi ora siamo, non ci dice nulla su come dovremmo essere, o come dovremmo diventare o come dovremmo decidere di cambiare noi stessi.
Se la natura rimane, quindi, una semplice descrizione della condizione umana come una pluralità di funzioni biologiche e psicologiche, è corretto inferire – date le premesse – che taluni cambiamenti saranno leciti fintanto che essi non danneggeranno il complesso organico attuale: nulla di più sarà corretto far derivare da un tale concetto di natura svuotato del suo significato ontologico e normativo. Solo la valutazione delle conseguenze potrà dire, a partire da un’osservazione di livello biologico, quali alterazioni potranno essere condotte sui singoli.
Un simile approccio, tuttavia, non considera la plurivocità del concetto di natura, la cui ambiguità dà adito al conflitto fra le posizioni presenti nel dibattito.
Con il termine “natura” si indicano al contempo due significati: quello “genetico” o “fisiologico” che indica lo stato naturale, la descrizione di quanto è naturale sul piano fisico e biologico, e quello di naturale “secundum natura”, che fa riferimento alla natura ontologica ed antropologica che nell’uomo è da ritenersi criterio fondamentale per l’agire morale.
Secondo questa distinzione sarà quindi naturale per l’essere umano avere una particolare struttura genetica, ad esempio, ma al contempo possiamo facilmente realizzare che in riferimento all’uomo non è plausibile considerare la mera dimensione biologica ma che dobbiamo fare riferimento in modo particolare quella natura, quella naturalità, che ci distingue e ci descrive come esseri umani.
A partire da questa fondamentale premessa, è a questo punto possibile strutturare un’analisi corretta di come l’enhancement agisca sulla natura umana.
Facendo riferimento al primo significato di natura in termini descrittivi è possibile osservare che già la nostra biologia ci suggerisce come alla realtà umana appartenga, ad ogni suo livello, la dimensione della complessità: questo approccio, oggi ampiamente in uso negli studi sugli organismi viventi, è in grado di mettere in dubbio la validità del paradigma riduzionista come unico metodo interpretativo applicato al vivente. Riconoscere che la comprensione di un organismo complesso passa attraverso sia lo studio delle parti sia la relazione biunivoca fra queste e l’intero come dinamica ineludibile e fondamentale già ci indica che è necessario svolgere un’attenta valutazione sull’intervento delle tecnologie potenzianti sul nostro organismo, considerando opportunamente che l’incremento di una funzione avrà effetti di vario genere sull’intero organismo. In tal senso la natura umana costituisce la fonte normativa primaria di un agire scientifico corretto e responsabile, i cui parametri è necessario provengano sia dalla dimensione fisiologica sia, poi, dalla dimensione più ampia che possiamo individuare nel bene della totalità dell’individuo.
La complessità, latu sensu, può dirsi cifra caratteristica dell’umanità: sotto il profilo antropologico dall’unitotalità delle componenti fisiche e spirituali della persona ne deriva che agire sul corpo dell’uomo è agire sull’uomo stesso. Ciò significa che l’alterazione e l’intervento sulle componenti fisiche dell’individuo comportano reazioni sulla sfera psicologica, indagabili a livello morale, poiché è possibile valutare se gli interventi sulla fisicità rispondono al bene ed allo sviluppo del soggetto. Facendo, tuttavia, un passo indietro sulla nozione di natura occorre ancora distinguere fra la dimensioni ontologica, fisiologica e morale.
Considerando il significato ontologico della natura umana è necessario domandarsi se l’intervento a livello biologico possa comportare cambiamenti nella sfera ontologica. Se la natura dell’uomo si traduce nel suo essere una sostanza individuata nel corpo la cui essenza è data dalla razionalità come carattere che distingue l’essere dell’uomo da ogni altro ente, quanto è passibile di alterazione e di intervento da parte delle biotecnologie sono le componenti fisiche che rispetto la sostanza uomo costituiscono elementi di natura accidentale, e quindi non essenziali nel definire la natura stessa del soggetto. Se con i mezzi tecnologici è possibile intervenire ad esempio su caratteristiche come la statura, la forza fisica, diverse funzioni cognitive, ciò non significa che tali cambianti debbano essere considerati – poiché non possono inficiare – sul piano ontologico.
Ciò non significa, peraltro, che le caratteristiche accidentali siano irrilevanti: al contrario, esse costituiscono elementi importanti nell’individualità del singolo soggetto. Le alterazioni sul piano biologico e funzionale non cambiano sostanzialmente la natura umana del soggetto, ma sono capaci di intervenire sul cosiddetto “divenire” della singola individualità: inoltre, da tali premesse, è opportuno derivare l’enhancement può apportare cambiamenti di natura semplicemente quantitativa e non qualitativa in seno alla natura del singolo soggetto.
Sul piano antropologico, poi, è possibile affermare che andare “contro la natura dell’uomo” significa agire come se le dimensioni fisica e psichica fossero separate, riducendo il valore della vita del singolo ed il bene di quest’ultimo ad un mero calcolo funzionale. È su questo piano che si gioca la questione morale dell’enhancement. L’alterazione di una qualsiasi caratteristica della persona avrà certamente delle ricadute sulla vita della stessa ed andrà misurata a partire dalle motivazioni che conducono ad un tale intervento, dalle modalità dell’intervento stesso passibili di valutazione etica e calcolando le conseguenze per il singolo e per la società stessa.
Nel dibattito, molto di frequente, l’enhancement è tradotto con “miglioramento” – e non come “incremento” – dando già per presupposta la prospettiva di sapore funzionalista che traduce il semplice aumento delle funzioni, appunto, fisiche con un aumento del valore della vita del soggetto e ne fa derivare un maggior benessere – che non è detto debba corrispondere al bene – per quest’ultimo.
Per meglio comprendere come una simile equazione sia antropologicamente inadeguata sarà opportuno analizzare il rapporto fra l’artificialità del mezzo tecnologico ed il senso delle attività e del limite umani, l’adeguatezza dello stesso come risposta a bisogni di natura non fisica o patologica, ed il peso della libertà del soggetto nella scelta per il potenziamento.
L’enhancement, come scorciatoia artificiale – pensiamo al doping nello sport o ai potenziamenti cognitivi - si contrappone alla naturalità dell’agire e delle capacità e viene non di rado interpretato come fonte di iniquo vantaggio. Questo è vero se pensiamo alle attività competitive, ma di certo è interpretabile positivamente se ragioniamo in semplici termini di efficienza rispetto agli obbiettivi da perseguire.
La contrapposizione artificiale-naturale non ha di per sé alcun peso morale: è difatti superficiale e fuorviante imputare una qualche negatività al ricorso al mezzo tecnologia e ritenere vi sia del valore nel sacrificio e nella fatica presi di per se stessi.
Vediamo che se la tecnica è utilizzata come ausilio in attività meccaniche quotidiane essa non può che avere effetti positivi in termini, come dicevamo di efficienza. Tuttavia vi sono attività umane che non sono valutabili o quantificabili seguendo il semplice parametro dell’efficienza.
Lo sport, come l’apprendimento attraverso lo studio, e la gestione delle emozioni sono pratiche umane e non semplici funzioni o attività da espletare in modo meccanico: il valore di una pratica umana, e non di una semplice funzione, è da ricollegarsi al significato che essa ha nella vita e nella crescita del soggetto. In tal senso il filosofo Alasdair MacIntyre parla di “pratiche significative” che contribuiscono a sviluppare le virtù utili alla crescita morale dell’individuo ed alla sua pina realizzazione. Esse perseguono tanto obbiettivi e beni ad esse estrinseci, quanto hanno valore in se stesse poiché attraverso di esse il soggetto persegue il proprio sviluppo e il proprio bene. Tali attività sono significative poiché rappresentano esperienze intellegibili: il rapporto di conoscenza con i nostri limiti ed il comprendere che attraverso determinate attività giungiamo a risultati significativi per la nostra esistenza fa parte del processo di educazione di ciascun individuo. Se pensiamo, dunque, al ricorso a scorciatoie artificiali ci accorgiamo che in questo modo si viene a perdere il senso di una stessa attività: simili espedienti rompono e deformano la connessione fra i mezzi e i risultati dell’agire. Pensiamo allo sport: il doping non costituisce problema solo perché può inficiare l’equità della competizione – danno aggirabile se tutti facessero uso di sostanze dopanti – ma perché le finalità dello sport in quanto pratica significativa risiedono nel contributo che esso dà alla crescita personale dell’atleta. Comprendere il valore di talune pratiche non nei termini di un accumulo di risultati bensì come parti di un processo di conoscenza e crescita significa ricondurre il soggetto ad un ruolo attivo nello proprio sviluppo: nel caso, invece, delle tipologie di enhancement che intervengono in pratiche umane significative, il soggetto “subisce” gli effetti, o risultati, di un miglioramento senza la possibilità di comprenderne il significato in termini di esperienza tipicamente umana. La tecnologia acquisisce un ruolo di mediazione all’interno dell’esperienza, senza, tuttavia, essere comprensibile e comunicabile. Ciò crea una distanza tra il soggetto agente, il suo agire e i risultati conseguenti, causando l’alienazione del sé che diviene non più agente attivo, bensì passivo.
La logica intrinseca all’enhancement che abbiamo detto che misura il bene in termini di semplice efficienza – si vive meglio quanto più ci si riesce ad affrancare dai propri limiti – rischia di avere due pesanti ricadute, ossia il rifiuto del rapporto dialettico con il limite proprio dell’esistenza di ciascuno, esperienza fondamentale tanto per il soggetto che impara a relazionarsi con una dimensione intrinseca alla natura umana e appartenente alla vita di ciascuno, quanto sul piano relazionale. Il rifiuto del limite, proprio di una certa prospettiva funzionalista, imputando un valore all’efficienza tale da interpretarla come parametro di valutazione sugli individui stessi, rischia di condurre a rapporti interpersonali viziati e utilitaristici: se una coppia di genitori non dovesse accettare i limiti di un figlio o invalido o semplicemente non rispondente a degli standard particolari, allora verrebbe meno quel rapporto di gratuità proprio della relazione genitore-figlio, e quest’ultimo sarebbe soggetto alla volontà arbitraria dei genitori subordinando a questa quell’intrinseca dignità e il valore propri di ogni essere umano.[13]
- La distinzione fra enhancement e terapia
Come illustrato in precedenza la distinzione fra enhancement e trattamenti terapeutici costituisce tanto un modo per definire il potenziamento, quanto l’oggetto di una delle questioni più controverse e dibattute in letteratura. Ad essa possono essere ricondotti problemi intorno la liceità di atti e dispositivi medici con finalità ulteriori rispetto la tradizionale cura della salute, la domanda sulla doverosità da parte della sanità pubblica di garantire interventi non solo curativi ma anche migliorativi, e, sullo sfondo, anche il giudizio morale sull’enhancement quando confrontato con gli scopi della medicina normalmente intesa.
La distinzione fra ciò che è terapia e ciò che va “oltre la terapia” (beyond therapy) sembra spesso sfumare, fatto riconducibile a diverse ragioni. Molti casi spesso citati in letteratura tendono a rimarcare la difficoltà di separare nettamente il “normale” dal “patologico”, contorni che si perdono ulteriormente se viene messo in campo il tema della disabilità e se si prendono a parametro i disagi psicologici e sociali dovuti a condizioni fisiche svantaggiose. È di frequente utilizzato l’esempio di due bambini, John e Billy [14] per i quali viene prospettato un trattamento con somministrazione di ormone della crescita per superare il problema della bassa statura, che potrebbe causar loro disagio psicologico e carenza di opportunità: ad entrambi viene pronosticata un’altezza massima di 160 cm., ma se il primo rimarrà piuttosto basso a causa di un tumore che inibisce la produzione dell’ormone della crescita, il secondo erediterà semplicemente la scarsa statura dei due genitori. Assumendo come parametro il disagio provocato dalla bassa statura, le due condizioni sono di frequente presentate come forme di disabilità: se, tuttavia, la condizione di John è frutto di una patologia per cui la somministrazione di ormoni fa parte del piano terapeutico, la statura di Billy non ha nulla di patologico, ma può essere causa di difficoltà per un insieme di fattori come la non accettazione soggettiva o il non rispondere a standard sociali e canoni estetici. In ambo i casi, tuttavia, il trattamento medico è considerato la via di risoluzione a due situazioni, tuttavia, non equiparabili.
Lo sfumare della differenza fra terapia e potenziamento è da ricondurre anche ad un dato di fatto, ossia l’eterogeneo utilizzo della medicina rispetto la cura di condizioni patologiche, come accade nei casi della chiururgia estetica, delle selezioni “eugenetiche”, dell’aborto etc. In parte simili fattispecie di intervento possono rientrare nel più ampio e generico fenomeno della “medicalizzazione” – meglio nota col termine inglese di medicalization -, ad indicare il ricorso massivo e sempre più accentuato alla medicina come supporto e rimedio per problematiche che non per forza hanno a che fare con il binomio malattia-salute: pensiamo, ad esempio, all’utilizzo, forse più diffuso negli Stati Uniti come segnala Elliott, di psicofarmaci atti a migliorare la concentrazione, le prestazioni intellettuali, le reazioni emotive, da parte di individui sani come di genitori nei confronti dei figli.
In ultimo, di frequente i detrattori di questa distinzione osservano che anche le applicazioni mediche tradizionali hanno effetti che potremmo definire migliorativi o potenzianti sulle funzioni fisiche, come si potrebbe osservare nel caso della prevenzione: l’uso di sostanze vaccinali comporta difatti un “potenziamento” del sistema immunitario contro le malattie infettive, tanto da ispirare il concetto di enhancement terapeutico.[15]
Riteniamo che all’origine di simili questioni si debba individuare la complessa e problematica relazione fra normalità e patologia, e fra benessere e salute. C’è da rilevare, infatti, che la difficoltà di definire cosa è terapeutico e cosa invece va “oltre la terapia”, deriva direttamente dalla difficoltà di individuare in modo chiaro il fine che informa, ossia che ci può indicare, cosa è terapeutico. Il caso dei due bambini poc’anzi menzionato ci indica come, in qualche modo, si voglia lasciar intendere che l’enhancement abbia sempre come fine una generica “salute” di chi dovrebbe farne uso, per quanto essa si voglia estendere anche ad un più generico concetto di benessere. Diviene perciò necessario recuperare il criterio normativo fondamentale che ci permette di discernere l’atto terapeutico o curativo: i molteplici dubbi emersi in questo settore del dibattito sono frutto, difatti, dei differenti approcci al concetto di salute, che sembrano condurre a conclusioni spesso divergenti, tanto che, proprio dall’allargamento della sfera della salute deriva la richiesta, apparentemente legittima anche per la medicina, di interventi che ancora giacciono sulla non chiara linea di demarcazione fra terapia e miglioramento.
Come definire, quindi, la linea di demarcazione fra i bisogni connessi alla salute, ed i desideri, più genericamente ascrivibili alla categoria del benessere (well-being)?
In senso restrittivo la salute può essere identificata con la mera “normalità” funzionale quale “assenza di malattia”, laddove per malattia si intenda una menomazione della capacità funzionale normale, cioè l’abbassamento di una o più capacità funzionali al di sotto dell’efficienza tipica. Secondo tale definizione, nella pratica medica si considera atto dovuto al paziente il solo trattamento di ciò che può essere diagnosticato come stato patologico. Stando a Boorse, il concetto di normalità statistica da descrittivo assume forza normativa, fornendo un parametro oggettivo, che tuttavia rimane relativo poiché riferito a parametri statistici che variano nel tempo e nello spazio.
Prospettive più estensive di carattere “olistico” connettono il concetto di salute a quelli di capacità e felicità: in queste, però, non è chiaro quale sia la serie di azioni che una persona sana deve esser capace di compiere.
È necessario quindi definire quale rapporto vi sia fra felicità e salute.
Julian Savulescu fa derivare da un buon funzionamento del corpo la diretta conseguenza di una vita buona: anzi, egli sembra faccia derivare la salute stessa dal benessere, appiattendo ogni distinzione o analisi in un’equazione fra piena efficienza fisica e felicità.[16]
In modo simile, la celebre definizione di salute proposta dall’Oms nel Protocollo di costituzione, il 22 luglio 1946 definisce la salute come “uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, e non solo l’assenza di malattia o di infermità”. Sebbene la categoria di salute sia strettamente connessa ad elementi sociali e culturali che cambiano a seconda dei momenti storici e dei luoghi geografici, se tuttavia stare bene diventa sinonimo di benessere, tutte le situazioni transitorie di disagio, di stress, di tristezza andrebbero trattate come mancanza di salute conducendo la medicina a trattare come malattie situazioni ascrivibili al concetto di disagio piuttosto che al concetto di patologia.
È possibile, quindi, delineare una definizione oggettiva della salute o bisogna ammettere che la salute è uno stato soggettivo impossibile da ricondurre a parametri universalmente condivisibili?
La salute è un concetto analogo e non univoco, si può dire a vari livelli perché è un equilibrio organico, relazionale e spirituale, ma ogni aspetto è connesso con gli altri proprio perché è riferito alla complessità corporeo-spirituale della persona. In essa è necessario combinare i criteri oggettivi, quelli soggettivi e quelli socioculturali, senza ridurre – o allargare – la salute agli uni mo agli altri. La complessità semantica dei concetti in gioco emerge anche da domande intorno al significato, ad esempio, di guarigione, che al contempo indica il recupero della condizione di salute da un punto di vista strettamente clinico ed il recupero dello stile di vita precedente la malattia, che possono non coincidere; similmente vi è differenza dall’essere sani e il sentirsi sani, e fra l’essere malati e il sentirsi malati[17]. Un’ulteriore complicazione è offerta, si è visto, dalla correlazione fra i concetti di disabilità e handicap. Possiamo concludere affermando che “la nozione di salute possiede, dunque, una complessità che sfugge alla riduzione a uno solo degli spetti, oggettivi, soggettivi, soggettivi, socioculturali”.
Tale conclusione, se riferita al confronto fra enhancement e terapie, conduce a ritenere opportuno ogni trattamento finalizzato alla salute, secondo l’uso di mezzi appropriati all’obbiettivo da raggiungere. Se, come detto, il concetto di salute descrive un equilibrio fra la condizione fisica - elemento oggettivo - e quella psicologica e relazionale - elemento soggettivo - , i mezzi di cui può usufruire la medicina possono intervenire limitatamente sulla condizione clinica del paziente: i mezzi tecnici e scientifici, per loro natura, possono modificare le condizioni funzionali ed organiche del soggetto, e solo secondariamente possono condurlo ad un sentirsi meglio. Il pieno conseguimento della condizione di “salute” psicologica ed emotiva sarà, tuttavia, frutto anche di una serie di elementi quali, ad esempio, il rapporto del soggetto con la propria condizione, le relazioni familiari e sociali, il rapporto instaurato con lo stesso medico.
Ora, in relazione ai mezzi squisitamente tecnici e scientifici di cui la medicina può disporre, e partendo dalla distinzione fra le definizioni di terapia e di enhancement a seconda che il “miglioramento” si collochi come conseguenza non prevista di un trattamento volto alla terapia, o come fine prestabilito, riteniamo che il solo criterio per comprendere quali atti medici siano dovuti sia la restitutio ad integrum, che sarà definita in base a parametri e criteri clinici stabiliti dalla scienza medica.
Torna nuovamente utile l’esempio di Johnny e Billy: pur vivendo entrambi una condizione di disagio psicologico ed esistenziale, non v’è dubbio che nel primo caso si delinea una patologia la cui soluzione adeguata è rappresentata dai mezzi propri della scienza biomedica. Nel caso di Billy la condizione di disagio, di malessere, è data con buona probabilità da un’insieme di fattori, quali la non accettazione della propria altezza da parte del soggetto, il non rispondere a determinati standard sociali o taluni canoni estetici. Riteniamo opportuno sollevare dei dubbi sull’adeguatezza della risposta che si intende dare a problemi che forse dipendono sono incidentalmente dalla bassa statura del soggetto, del quale si potrebbe ipotizzare, per esempio, un disagio psicologico emerso a causa della statura - che potrebbe forse costituire un semplice pretesto - ma forse ben più profondo e di natura esistenziale o relazionale. L’ormone della crescita, in buona sostanza, sarà forse la risposta inadeguata a bisogni di natura differente.
Stando al criterio dell’adeguatezza del mezzo al fine perseguito, si potrà parlare di doverosità della somministrazione di trattamenti volti alla cura di uno stato di salute clinicamente compromesso, mentre situazioni non patologiche ma fonte di disagio richiederanno risposte da individuare in terapie di sostegno di natura psicologica o strategie più ampie di natura culturale, sociale ed educativa alla quali associare, eventualmente e dopo attenta valutazione, interventi di natura medica.
Da quanto argomentato sin qua possiamo desumere che l’enhancement, tradotto genericamente come “miglioramento”, debba esser messo, in questo senso, ragionevolmente in dubbio. Con ciò non vogliamo lasciar intendere che l’intervento tecnico potenziante debba esser del tutto messo al bando: piuttosto riteniamo che esso debba essere analizzato alla luce di un visione antropologica ampia e complessiva, nella quale trovino ancora senso termini come salute, malattia, cura etc.
Vi sono, inoltre, altre questioni che andrebbero prese in considerazione come condizioni di accettabilità morale dell’enhancement: si tratta di questioni non residuali, che anzi trovano ampio spazio nella letteratura che si occupa di individuare i criteri etici per la valutazione del HET e che qui sintetizzeremo come segue.
- Alcune questioni rilevanti per la riflessione etica:
5.1 Il problema del rischio:
Secondo quanto già argomentato a proposito della complessità dell’organismo biologico umano, occorre considerare che l’alterazione di una o più parti o funzioni è strettamente correlata ad altre parti dell’organismo ed al tutto. Ciò significa che il potenziamento di una data funzione non per forza condurrà al miglioramento dell’intero organismo, ed anzi, è altamente probabile che taluni interventi abbiano una serie di effetti non previsti e difficilmente prevedibili. Si trova conferma nei campi di ricerca più rappresentativi per lo human enhancement: in ambito di ingegneria genetica occorre considerare che, allo stato attuale, esiste il rischio legato all’irreversibilità degli errori, quello di danni al momento non conosciuti o forse non conoscibili, la trasmissione degli effetti alterativi sulla progenie e quindi l’eventuale danneggiamento di terzi”[18]. Anche l’enhancement attraverso le nanotecnologie offre un esempio di quanto siano imprevedibili le conseguenze di interventi di tal sorta. In modo particolare, l’applicazione di questo genere di tecnologie appare problematica poiché le peculiari caratteristiche delle particelle alla dimensione nano impedisce di prevedere del tutto i meccanismi di reazione di questi dispositivi una volta applicati all’organismo umano. In generale è opportuno che la proporzione fra rischi e benefici nel caso delle tecnologie di enhancement assume caratteristiche, a nostro avviso, del tutto peculiari, che segnano la differenza con valutazioni simili nell’ambito di tecnologie finalizzate alla terapia. Il bilanciamento fra rischi e benefici in un intervento o una sperimentazione finalizzati alla terapia è valutato in base alla speranza di porre rimedio alla patologia, che di per sé è dannosa per l’integrità fisica dell’individuo: nel caso dell’enhancement, invece, la condizione di partenza è già “integra”, e quindi ogni rischio per l’integrità stessa appare, in linea di principio, eticamente non giustificabile. Il campo d’indagine richiederebbe, quindi, l’opportuna applicazione del principio di precauzione.
5.2 I problemi dell’autonomia e della giustizia:
Le posizioni presenti in letteratura oscillano fra coloro che ritengono che la scelta per il potenziamento debba essere lasciata del tutto all’autonomia dei singoli, compreso il confronto fra danni e benefici, mentre altri ritengono che vi debba essere un’equa distribuzione di questi trattamenti da parte delle istituzioni pubbliche al fine di ricondurre tutti ad una stessa uguaglianza di opportunità. Entrambe le posizioni appaiono problematiche. Nel primo caso è difficile pensare che possa esistere una reale libertà di scelta anche di non ricorrere a simili trattamenti in una società ove i soggetti potenziati dovessero ottenere maggiore spazio e successo: una simile tendenza andrebbe ad esasperare la forbice sociale e condurrebbe ad una sorta di digital divide. Similmente anche la posizione egualitarista, per quanto proceduralmente forse più soddisfacente, nasconde diversi problemi: anzitutto non è chiaro quali capacità dovrebbero essere sottoposte a potenziamento, e, ad ogni modo, un medesimo sviluppo di capacità selezionate in tutti gli individui condurrebbe ad un appiattimento che con buona probabilità sarebbe modellato da logiche ispirate all’efficienza ed all’utilità sociale, mettendo al bando altre forme di abilità o dando per presupposto che le “incapacità” – dovute alla “diversità naturale” fra individui - dovrebbero rappresentare, secondo valutazioni arbitrarie, condizioni indesiderabili.
- Conclusione
Tali problemi richiederebbero un ampio approfondimento: ad ogni modo, l’enhancement può considerarsi, come ogni frutto del progresso scientifico, come una risorsa per i singoli individui e per collettività, a patto che siano rispettate due condizioni. In primo luogo è essenziale lasciare alla reale libertà dell’individuo la scelta del potenziamento, affinché egli non sia soggetto a strumentalizzazioni (come gli atleti, i militari) o non si delinei alcun obbligo ad optare per il potenziamento. Quest’ultimo aspetto è connesso alla tematica della giustizia: a livello sociale l’apparente offerta di maggiori opportunità è d’uopo non sia occasione di un allargamento della forbice della disuguaglianza e che le risorse da spendersi in vario modo per l’enhancement è necessario non siano sottratte all’investire su interventi di tipo sociale, educativo, psicologico volti a risolvere i problemi che sono forse all’origine della medicalizzazione massiccia e della domanda di “miglioramento”.
NOTE
[1] Bertolaso M, Olsson J, Picardi A, Rakela J. Gene therapy and enhancement for diabetes (and other disease): the multipli city of considerations. Diabetes/metabolism research and reviews 2010; 26: 520-524; Bertolaso M. Le Human Enhancement Technologies e l’irriducibilità della complessità biologica. in Kampowski S., Moltisanti D. (edd.) Migliorare l’uomo? La sfida etica dell’enhancement. Siena: Cantagalli; 2011, pp. 35-58.
[2]The President’s Council on Bioethics. Beyond Therapy. Biotechnology and the Pursuit of happiness. New York: DANA Press, 2003; Elliott C. Better than Well: American Medicine Meets the American Dreams. New York: W. W. Norton; 2003; Kass LR. Ageless Body, Happy Souls: biotechnology and the pursuit of perfection. The New Atlantis, Spring 2003: 9-28.
[3]The President’s Council on Bioethics, op. cit.
[4]Roco MC, Bainbridge WS. (eds.), Converging Technologies for Improving Human Performance. Nanotechnology, Biotechnology, Information Technology and Cognitive Science. National Science Foundation, Arlington, Virginia, June 2002.
[5] Ibidem, p.11.
[6] European Parliament, Science and Technology Options Assessment (STOA), Human Enhancement Study. Brussels, 2009. Web: http://www.europarl.europa.eu/stoa/publications/studies/stoa2007-13_en.pdf (accesso al 19 marzo 2012)
[7]Berghmans R. terMeulen R. Malizia A. Vos R. Scientific, Ethical and Social Issue in Mood Enhancement in Savulescu J. Kahane G. terMeulen (eds) Enhancing Human Capacities Blackwell-Wiley 2011, pp 153-165. In questa sede il potenziamento temporaneo è definito come mood- cognitive- sport-doping, mentre l’enhancement sarebbe il risultato di alterazioni irreversibili.
[8]Elliott C., What’s wrong with enhancement technologies? CHIPS Public Lecture, University of Minnesota, February 26, 1998.
[9]Elliott C., Better than well: American medicine meets the American dream, W.W. Norton&Company, New York 2004.
[10] L. R. Kass, The Wisdom of Repugnance, in “New Republic”, Vol. 216, XXII, 1997; Sandel M. The case against Perfection: Ethics in the Age of Genetic Engineering(2007); tr. it. Contro la perfezione. L’etica nell’età dell’ingegneria genetica, Vita e Pensiero, Milano 2008; Fukuyama F., Our Posthuman Future (2002); tr. it L'uomo oltre l'uomo. Le conseguenze della rivoluzione biotecnologica, , Mondadori, Milano 2002.
[11] Buchanan A. Human Nature and Enhancement. Bioethics. 2009; 23, 3: 141-150
[12]Caplan A. Is it wrong to try to improve human nature? in Miller P, Wildson J. (ed.) Better humans? The politics of human enhancement and life extension. Demos: London; 2006: 31-39.
[13] A questo proposito rimandiamo alle riflessioni utili, per quanto non esaustive, di Habermas J. Il futuro della Natura Umana. I rischi di una genetica liberale. Einaudi; 2002. (ed. or. The future of human nature; 2003);
Sandel M. Contro la perfezione. L’etica nell’età dell’ingegneria genetica. Milano: Vita e Pensiero; 2008 (ed. or. The case against Perfection: Ethics in the Age of Genetic Engineering; 2007).
[14] Parens E., Is better always good? The Enhancement Project in Parens E. (ed.) Enhancing Human Traits: Ethical and Social Implications, Georgetown University Press, Washington D.C. 1998, pp. 1-28; Daniels N. Normal Functioning and the Treatment-Enhancement Distinction.in “Cambridge Quarterly of Healthcare Ethics”, n. 9, 2000, pp. 309-322.
[15] European Parliament, Science and Technology Options Assessment (STOA), Human Enhancement Study. Cit.
[16]Savulescu J. Justice, fairness and enhancement. Ann. N.Y. Acad. Sci. 2006; 1093: 321–338.
[17]Pessina A. Barriere della mente e barriere del corpo. Annotazioni per un’etica della soggettività empirica in Pessina A. Paradoxa. Etica della condizione umana. Milano: Vita e Pensiero; 2010: 199-244.
[18]Baylis F., Robert JS. The inevitability of genetic enhancement technologies. Bioethics 2004; 18: 1-26, p. 7.
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Giglio, Francesca, LO HUMAN ENHANCEMENT, en García, José Juan (director): Enciclopedia de Bioética.