I PRINCIPI DELLA BIOETICA NORD-AMERICANA E LA CRITICA DEL “PRINCIPLISMO”
Autor: Antonio G. Spagnolo
INDICE
1. Introduzione2. Il paradigma della bioetica basato sui principi
3. Alcuni limiti nell'applicazione dei principi nord-americani
4. La critica al principlismo nord-americano
5. Conclusioni
6. Note e Bibliografia
1. Introduzione
Lo sviluppo della bioetica, che ha oggi un status accademico ed una ormai vastissima letteratura, ha risvegliato una particolare riflessione sui diversi problemi etici legati soprattutto all’applicazione delle tecnologie mediche nella fase iniziale e terminale della vita. Si è parlato esplicitamente di bioetica, per la prima volta, anche in un documento pontificio come l'enciclica Evangelium Vitae nella quale si afferma che “con la nascita e lo sviluppo della bioetica vengono favoriti la riflessione e il dialogo - tra credenti e non credenti, come pure tra credenti di diverse religioni - su problemi etici, anche fondamentali, che interessano la vita dell'uomo” (n. 27).
In questi ultimi anni, tuttavia, accanto ai problemi di bioetica, si andata affermando una riflessione sempre più impegnativa sulla bioetica stessa e sulle sue fondazioni e giustificazioni epistemologiche. Numerosi sono stati gli autori e gli approcci alla questione dei fondamenti della bioetica1 ma non sempre si è arrivati a quello che ci sembra dovrebbe essere l'obiettivo di una fondazione della bioetica e cioè quello di definire una "meta-bioetica" che impegni sul piano teoretico e su quello pedagogico alla ricerca di una vera giustificazione, cioè alla ricerca della ragione ultima per cui una determinata azione debba essere considerata lecita o non lecita.
Non è sufficiente, infatti, per un discorso fondativo, elaborare paradigmi concettuali che si adattino alla soluzione di casi limite, basati su un consenso pragmatico e flessibile, secondo le circostanze. Si tratta di offrire, invece, indicazioni e orientamenti in senso "forte", rendendo ragione del valore assiologico- prescrittivo che è contenuto nelle scelte che riguardano gli interventi sulla vita dell'uomo e di tutto l'ecosistema2. In altri termini, il riferimento a prospettive di senso, a costanti antropologiche, sono il presupposto necessario all’elaborazione dei criteri normativi: l’etica si riferisce sempre ad una precomprensione antropologica da cui nasce ed a cui si riferisce.3
Se si esamina lo sviluppo storico della bioetica come disciplina4 ci si può rendere conto che il primo e più diffuso approccio alla bioetica sia stato un approccio basato su principi. La ragione dell'affermarsi di un tale approccio sono diverse ma è soprattutto una in particolare che è emersa nell'analisi fatta dagli stessi proponenti e dai diversi studiosi dell'argomento: quella che di fronte ai nuovi problemi posti dalle nuove biotecnologie non si potevano usare categorie dipendenti esclusivamente da ragioni scientifiche e professionali ma che era necessario ricercare un modello argomentativo che fosse il più possibile rigoroso e che tenesse conto del contesto fortemente pluralistico all'interno del quale si veniva a collocare la nascente bioetica5.
Nel nostro contributo ci soffermeremo in particolare su questo modello originario della bioetica basato sui principi che si è sviluppato al Kennedy Instituteof Ethics (Georgetown University), descrivendo in una prima parte le modalità con cui è strutturato e proposto dai suoi sostenitori; nella seconda parte mostreremo, invece, i limiti e le critiche - per motivi diversi - di tale impostazione, che hanno portato all'affermarsi di altri approcci alla bioetica come l'etica delle virtù, l'ermeneutica, l'etica casistica, l’etica femminista ed altri ancora.
Prima di guardare più specificamente il contenuti dei cosiddetti "principi della bioetica nordamericana" occorre notare che la parola "principio" ha due differenti significati in etica6. Il primo si riferisce a ciò che designa l'inizio o il fondamento di una teoria etica. In questo senso i principi sono fondanti o originari e non sono derivati né difesi da teorie etiche: piuttosto, sono le teorie morali che derivano e sono difese dai principi.
Nel secondo significato, i principi designano una norma standard in base alla quale si può esprimere un particolare giudizio morale circa ciò che è giusto o sbagliato. In questo senso essi assumono il significato di principi-guida dell'azione che derivano, o quanto meno possono essere difesi, da teorie morali.
Come diremo più avanti, ci sembra che i principi della bioetica nordamericana, sorti inizialmente come principi-guida delle azioni, difendibili da diverse teorie morali, siano in realtà poi "degenerati" - per la loro modalità di risolvere il conflitto fra essi - fino a diventare una sorta di teoria etica essi stessi, di discutibile natura. E' su questa base che si fondano le critiche più forti che ci sentiamo di muovere a tali principi nella prospettiva personalista.
2. Il paradigma della bioetica basato sui principi
Per oltre vent'anni quello dei principi è stato il paradigma dominante della bioetica, un paradigma che ha cercato di dare una risposta a quali dovessero essere i percorsi della bioetica per giungere a valutare quali condotte erano eticamente accettabili. Certamente la questione, per coloro che si proponevano di dare quella risposta, era complessa in quanto ogni percorso ipotizzabile sembrava lasciare sempre una certa inadeguatezza. Tuttavia si è ritenuto che se alcune azione particolari sono sbagliate certamente esse hanno in comune qualcosa con altre azionisbagliate e, viceversa, un atto doveroso ha certamente qualcosa in comune con altre azioni doverose.
I filosofi hanno perciò cercato di identificare quali sono queste caratteristiche comuni formulando, sotto forma di principi, ciò che si poteva identificare nei diversi casi particolari. Venne così definita l'esigenza, per un ragionevole approccio ai problemi della bioetica, di fare riferimento ad alcuni principi al fine di giungere a soluzioni ponderate7. La stessa definizione originaria di bioetica, riportata nella prima edizione della Encyclopedia of Bioethics, contiene il riferimento determinante a valori e a principi morali8.
Indipendentemente dalle diverse teorie etiche che potevano essere dietro a questi principi e alla interpretazione di essi, si dava loro grande importanza: accanto ai messaggi morali ricevuti con l'educazione e alla esperienza morale che ognuno fa continuamente, il ricorso ai principi etici avrebbe potuto permettere all'individuo di giustificare consapevolmente la propria decisione, adottando un alfabeto morale con il quale cercare di risolvere le perplessità etiche delle diverse situazioni.
A questo paradigma ha fatto riferimento la maggior parte della letteratura bioetica di lingua inglese, proponendo alcuni principi ben definiti (fondamentalmente i principi di autonomia, di beneficialità e non maleficienza, digiustizia) quale linguaggio comune della bioetica pluralista in campo internazionale, con la pretesa di essere indipendenti dalle diverse teorie etiche di fondo. Questi principi, inoltre, intendevano offrire una precisione di linguaggio dovendosi occuparsi di un ambito oggettivo e preciso come quello bio-medico.
Se andiamo, ancora prima, ad esaminare il contesto operativo all'interno del quale ha preso inizialmente l'avvio il sistema principialista scopriamo che esso era stato proposto limitatamente alla sperimentazione sull'uomo. Siamo negli anni 1974- 1978 negli Stati Uniti dove la National Commission for the Protection of HumanSubjects of Biomedical and Behavioral Research, per mandato del "Congresso", venne investita dello specifico compito di identificare alcuni principi etici di base che vennero diffusi poi attraverso il documento finale The Belmont Report9. In questo documento viene esplicitamente giustificato il ricorso a principi più generali dato che, rilevava la Commissione, le norme che guidano gli sperimentatori e i Comitati Etici sono spesso in conflitto fra loro e dunque di difficile applicazione. Così, vengono proposti:
1) Il principio del rispetto delle persone coinvolte nella sperimentazione, che implica da un lato di trattarle come soggetti autonomi, dall'altro di tutelarle quando la loro autonomia è ridotta o assente. Le conseguenze pratiche di questo principio si riferiscono alla necessità di acquisire sempre il consenso informato del soggetto o di valutare chi può decidere suo posto. Il concetto di autonomia qui ha un carattere molto concreto essendo definito come capacità di una persona "di riflettere sui propri obiettivi e di decidere da se stessa di agire in conformità con questa riflessione"; in altre parole, capacità di agire consapevolmente e senza costrizioni.
2) Il principio delle beneficialità negli interventi sperimentali, cioè nonarrecare danni, minimizzare i rischi e massimizzare i vantaggi. Per trattare le persone in modo morale, infatti, non solo bisogna rispettare le loro decisioni e proteggerle contro ogni danno, ma occorre anche sforzarsi di assicurare il lorobenessere. E due regole generali erano formulate per esprimere in modo complementare le azioni benefiche in questo senso: non fare del male e aumentare il più possibile i benefici, riducendo il più possibile i danni. Nel campo della sperimentazione questo si riferiva alla necessità di valutare previamente per ogni soggetto il rapporto rischi-benefici.
3) Il principio di giustizia nella ripartizione degli oneri e dei rischi della sperimentazione. A ben vedere, come diremo, da un lato questo principio si collega con quello delle beneficialità, dall'altro con quello del rispetto delle persone richiedendosi di trattare tutti gli individui in modo uguale. La Commissione Belmont ritenne semplicemente che quei tre principi avrebbero rappresentato una base etica sufficientemente condivisa dalla tradizione culturale occidentale e non si spinse più oltre per fondare il suo Rapporto. In altre parole, quei principi vennero proposti senza alcuna pretesa fondativa anche se venivano dichiaratamente derivati da norme deontologiche.
Chi invece si propone di compiere questo lavoro fondativo sono proprio Beauchamp e Childress con l'opera già richiamata che uscì nella sua prima edizione quasi contemporaneamente con il Rapporto Belmont e che ha rappresentato l'esempio più affermato del modello di bioetica basato sui principi10. L'intento degli autori è stato duplice: da un lato estendere il modello basato sui principi dal campo della sperimentazione a quello più vasto di tutta l'area biomedica; dall'altro collocare in modo rigoroso i principi all'interno del modello, ritenendo di poter giustificare i principi stessi sulla base di teorie etiche anche contrastanti fra di loro come sono, ad es., le teorie deontologiche e quelle utilitaristiche e teleologiche.
C'è da rilevare che soprattutto nell'ultima edizione della loro opera i due autori riconoscono che oltre alle due teorie etiche fondamentali prima richiamate oggi vengono ad assumere un particolare rilievo diverse altre teorie come quelle fondate sul carattere e sulla virtù, sull'esperienza, sulla solidarietà, ed altro ancora, segnando così quello che E.J. Emanuel - recensendo la 4^ edizione del volume di Beauchamp e Childress - definisce "l'inizio della fine del principlismo" anche nella bioetica nordamericana11.
Ma ritorniamo ai punti basilari di quanto teorizzato da questi autori, i quali possono essere così riassunti: 1) non vi sarebbero norme intrinseche alla pratica medica che possano guidare le decisioni di quali siano le migliori scelte in medicina; 2) vi sarebbero quattro principi etici fondamentali - principio di autonomia, principio di beneficialità, principio di non maleficienza, principio di giustizia - condivisi da diverse teorie etiche, che dovrebbero guidare le azioni etiche in medicina; 3) i giudizi morali particolari implicano l'applicazione di questi principi alle situazioni concrete.
In altre parole, il giudizio ultimo pratico per un caso particolare, che determina la decisione circa una determinata azione da fare (per es. rifiutare di partecipare ad una procedura abortiva), deriva dall'applicazione di alcune regolepratiche che sono generalizzazioni su ciò che deve o non deve essere fatto in uno specifico contesto, per uno scopo limitato (nell'esempio precedente, la regola sarebbe che è moralmente sbagliato uccidere intenzionalmente un essere umano).
Tali regole, a loro volta, scaturiscono da criteri più generali, i principi appunto (nel nostro caso il principio della beneficialità riferito al feto), i quali in ultima analisi sono giustificati dalle teorie etiche che orientano le scelte, soprattutto nel caso che vi sia un conflitto fra i principi. Vedremo meglio più avanti il meccanismo proposto da Beauchamp e Childress per risolvere questo conflitto e i limiti di esso. Dunque, il dogma centrale del principlismo è che, mentre teorie radicalmente contrapposte - come quelle deontologiche e quelle utilitariste - possono non essere d'accordo su concetti teorici o metodi di giustificazione, esse possono arrivare ad una sovrapposizione di consenso (overlapping consensus) su identici principi e regole e dunque anche sulle azioni da raccomandare. Dalla condivisione dei credi morali dei semplici cittadini, essi sostenevano, si può ottenere il contenuto della moralità comune. I quattro principi, dunque, sono volutamente incastrati in questi credi morali comuni.
Non sorprende come una tale "semplicità" metodologica per affrontare i problemi bioetici abbia avuto molto seguito: fra gli eticisti - e in generale nella "folla dei convertiti alla bioetica"12, l'invocare i quattro principi di fronte ai dilemmi medici era divenuto l'approccio standard che si poteva ascoltare all'interno degli ospedali, leggere in prestigiose riviste mediche, trovare a fondamento dei rapporti di commissioni pubbliche. L'aspetto della semplicità, dunque, è stata la ragione principale del successo, permettendo anche ai non esperti di avere uno schema sul quale confrontare i diversi problemi etici incontrati nella pratica.
Effettivamente, quei pochi principi riuscivano a coprire molti ambiti della biomedicina. Il principio di autonomia o meglio del rispetto dell'autonomia, come successivamente è stato precisato13, era posto come basilare per tutti gli altri principi: poiché la moralità di un'azione richiede che l'individuo compia delle scelte in modo autonomo si richiede che prima di ogni esame dei principi etici di riferimento si debba chiarire l'autonomia di chi è coinvolta e come possa essere rispettata.
Sul principio del rispetto dell'autonomia vengono fondate tutte le considerazioni relative al consenso informato, al rifiuto consapevole delle cure, alla verità al paziente, all'interruzione volontaria di gravidanza, al living will, ecc. Il concetto di autonomia include diversi significati: di autodecisione, di diritto alla libertà, di riservatezza, di scelta individuale e così via, per cui di fronte a questa varietà semantica Beauchamp e Childress hanno fatto una ricostruzione del concetto definendo una teoria dell'autonomia. Alla luce di questa teoria, alla quale si rimanda14, il principio del rispetto dell'autonomia comporterebbe il riconoscimento della capacità della persona di fare una scelta basata sui valori personali ed inoltre che la persona stessa sia messa nelle condizioni di agire in modo autonomo.
Tuttavia questo principio, insieme con tutti gli altri due principi morali identificati, sarebbe solo, come diremo più avanti, un principio prima facie in quanto se, per es., la scelta autonoma dell'individuo minacciasse la salute pubblica ofosse potenzialmente pericolosa per il feto o implicasse un costo economico - superiore al "minimo dovuto" - che egli non potrebbe sostenere, caricando così lo stato, potrebbe essere giustificato limitare anche in modo severo questa autonomia.
A giustificare questa limitazione interverrebbero due altri principi di riferimento: il principio di beneficialità e il principio di giustizia. Il primo ha, in effetti, come si è accennato all'inizio, due componenti distinte: 1) il principio di "non-maleficità", che richiede di non infliggere alcun male a nessuno e che rispecchia l'antica massima della tradizione ippocratica primum non nocere; 2) il principio di beneficialità propriamente detto che va oltre il semplice astenersi dal fare il male ed impegna alle azioni positive di prevenire il dolore o il male, di rimuoverlo, di promuovere comunque il bene. La componente di "non-maleficità" è applicata, per es., ai problemi dell'accanimento terapeutico o al rapporto rischi- benefici di ogni intervento medico. La componente della beneficialità è richiamata nei problemi della terapia del dolore, della donazione degli organi, in generale dell'impegno diagnostico/terapeutico del medico. Anche questo principio, come dovere prima facie, può subire limitazioni quando si tratti di affrontare problemi in cui l'evitare il male e il fare il bene sono collegati con obbligazioni sociali di giustizia distributiva.
Il riferimento è, allora, al principio di giustizia che in parte viene collegato con la espressione delle formule classiche del suum cuique tribuere e dell'alterumnon laedere; in parte viene esplicato in termini di imparzialità nel riconoscimento di alcuni diritti. Il principio di giustizia in bioetica viene invocato in relazione, per es., alle cure necessarie e doverose per ogni malato, alle definizione di priorità nella distribuzione dei fondi in campo sanitario, in generale per la razionalizzazione di tutti gli interventi medici. Secondo qualche autore15 questo principio non avrebbe una sua identità ma deriverebbe, a seconda delle particolari visioni morali, ora dal principio di beneficialità - se il p. di giustizia è utilizzato come criterio da seguire nell'atto di realizzare il bene e di evitare il male - ora dal principio di autonomia -quando è utilizzato per fornire indicazioni per intervenire laddove sarebbe intervenuto autonomamente il singolo in relazione alle proprie esigenze.
Vediamo ora come gli autori pongono la questione del conflitto fra i principi e, più a monte, delle teorie che li giustificano spesso contrapposte fra di loro. Quello che Beauchamp e Childress propongono è di inserire i principi all'interno di una teoria etica composita (non monistica o assolutistica, non tutta deontologica, né tutta utilitaristica) che permetta a ciascun principio basilare di avere un certo peso senza però avere una priorità (è esclusa dunque ogni gerarchia oggettiva dei principi). Quale principio avrà la preminenza nel caso di conflitto fra essi dipenderà dal particolare contesto che ha sempre caratteristiche uniche. Come si può immaginare, pur dichiarando esplicitamente il rifiuto di qualsiasi etica della situazione, il rischio è molto forte. Parlando di una tale teoria non assolutistica si fa anche esplicito riferimento all'intuizionismo presente nel bilanciamento dei valori, bilanciamento non "self-evident" - come lo sono invece i singoli principi identificati, espressione della comune moralità - escludendo quindi qualsiasi possibilità di deduzione da principi fissi, di peso standard. E' la metafora di W.D. Ross, il filosofo che ha elaborato negli anni '30 la teoria intuizionistica16, per cui il peso dei principi in una situazione di conflitto "sale e scende come su una scala" nelle diverse situazioni. In questa prospettiva Ross distingue, come si è detto, doveri prima facie, cioè doveri che sono vincolanti in tutte le circostanze, a meno che essi non siano in conflitto con doveri uguali o che risultano più forti nella situazione concreta; e doveri attuali, cioè doveri da assolvere nella situazione concreta e che vengono a determinarsi dal bilanciamento del diverso peso che hanno, in quella situazione, i doveri prima facie implicati.
Da Ross, dunque, essi prendono quella distinzione fra i principi che si riferisce di fatto ad una teoria deontologica, anti-utilitaristica: per Ross, infatti, la scelta di un'azione piuttosto che di un'altra non deve dipendere dal fatto che la prima produce migliori conseguenze ma dal fatto che risponde ad un dovere che, nella circostanza concreta, è giudicato migliore (intuizionismo) e diventa, dunque, effettivamente obbligante. Nel caso del conflitto fra i principi, invece, Beauchamp e Childress, riferendosi al bilanciamento che fra i principi deve essere operato, parlano della valutazione delle conseguenze connesse con le decisioni che si ispirano ora all'uno ora a l'altro dei principi coinvolti. E' escluso qualsiasi riferimento a criteri oggettivi per valutare le diverse decisioni possibili, e dunque è proposto un criterio soggettivo, quando è coinvolta solo una persona nella decisione o il consenso di tutti coloro che sono coinvolti. In conclusione, osserva Viafora, "il contemporaneo riferimento ad una teoria di carattere deontologico (i doveri prima facie) e ad una a carattere teleologico (utilitarismo della regola) convince Childress e Beauchamp di avere impostato un metodo adatto per la soluzione di ogni problema etico nel campo biomedico"17
3. Alcuni limiti nell'applicazione dei principi nord-americani
Per mettere in evidenza i limiti del modello basato su questi principi facciamo alcuni esempi che ci sembrano indicativi di come, a seconda dell'enfasi posta su uno o sull'altro principio, si arrivi a conclusioni diverse e di come, in definitiva, diversa debba essere la teoria di fondo che giustifica i principi. Essi, infatti, non hanno lo stesso significato nelle diverse teorie e dunque non si giustifica la loro pretesa universalità, indipendentemente dalle teorie. A questo proposito, Emanuel18, pur trovandosi d'accordo con le possibilità arrivare ad un consenso circa i primi due principi, quando arriva al principio di giustizia non può non riconoscere che questa possibilità di consenso non vale per esso: "il principio di giustizia non può essere distaccato dalla teoria sottostante la quale identifica inequivocabilmente il concetto stesso di giustizia".
Un primo esempio che vogliamo fare è quello del famoso caso Arthur19: nel novembre 1981, il medico inglese dr. Leonard Arthur, uno stimato pediatra, venne assolto dal tribunale dall'accusa di tentato omicidio dopo che nei confronti di un neonato affetto da sindrome di Down, respinto dalla madre, egli aveva prescritto solo "diidrocodeina e cure infermieristiche". Fu proprio nel processo che emerserole contrapposte posizioni morali dell'accusa e della difesa, indicando come il riferimento ad un principio piuttosto che ad un altro portava a posizioni completamente opposte mentre uno era il bambino che bisognava di assistenza ed una l'essenza della professione medica. L'accusa si fondava, infatti, sostanzialmente sui principi di beneficialità e di giustizia dai quali faceva derivare conseguenze come: tutti gli esseri umani hanno il fondamentale diritto alla vita per cui è inaccettabile uccidere o anche solo negare protezione; il pediatra nei confronti dei suoi pazienti e i genitori nei confronti dei loro figli hanno il dovere di protezione; sarebbe inaccettabile somministrare ad un neonato sano, respinto dai genitori, un analgesico potenzialmente pericoloso (come è la diidrocodeina che determina depressione del centro respiratorio) quando il suo dolore e la sua sofferenza potrebbero essere alleviati dal cibo o da altri trattamenti appropriati; sarebbe inaccettabile fornire solo cure infermieristiche ad un bambino più grande affetto da sindrome di Down che, per esempio, venisse ricoverato per un incidente stradale. Dunque per l'accusa il neonato affetto da sindrome di Down era un essere umano esattamente come lo è un neonato normale o un bambino più grande handicappato.
Il caso morale per la difesa partiva, invece, da ragioni fondate sostanzialmente sul principio di autonomia per cui: sebbene il dovere del pediatra fosse quello di preservare la salute dei pazienti vi possono essere situazioni nelle quali (handicaps neonatali fisici e psichici gravi) non sarebbe giustificato un intervento volto ad accrescere le possibilità di sopravvivenza; è probabile che tali vite, quando vengano preservate, risultino di una scadente qualità di vita, e possono imporre, inoltre, un onere economico notevole per i loro genitori, o per i tutori, o per la comunità qualora i genitori li respingano. Dunque, in circostanze così variabili, sarebbero i genitori le persone più adatte a decidere (principio di autonomia) e sarebbe arrogante e crudele per un medico o per qualsiasi altra persona imporre una decisione contraria ai desideri dei genitori (rispetto dell'autonomia).
Emerge dunque il conflitto fra le indicazioni cliniche del medico, le diverse concezioni della qualità di vita futura, la volontà dei genitori, gli interessi della società in relazione alle risorse disponibili.
Come si vede, i diversi principi e ragioni danno un peso diverso alle possibili decisioni a seconda della rilevanza che il singolo dà a ciascun principio e dunque della teoria etica che lo ispira.
Un altro esempio è quello delle ragioni che stanno alla base della decisione di rivelare o di non rivelare al coniuge il segreto professionale circa l'infezione da HIV dell'altro coniuge. Chi arriva alla decisione che anche nel caso dell'AIDS il segreto non dovrebbe essere mai rivelato giustifica questo con i principi della bioetica interpretati in un certo modo: il principio di autonomia interpretato nel senso di rispetto assoluto per la volontà e la privacy del paziente; il principio di beneficialità nel senso che se i pazienti constatano che il segreto professionale non è sempre rispettato dal medico rifiuteranno di rivolgersi a lui e si perderà così l'occasione di poterli consigliare e di attuare le misure necessarie per evitare di contaminare altri; il principio di giustizia nel senso di tutela dai gravi danni sociali, morali e finanziari, e dall'innesco di discriminazioni drammatiche, che vi sarebbero come conseguenza della rivelazione di un segreto. Ma anche chi, al contrario, sostiene la opportunità, nel caso dell'AIDS, di rivelare il segreto ad alcune condizioni fa riferimento agli stessi principi, evidentemente interpretandoli in modo diverso. Così, richiamando il principio di autonomia si afferma che autonomia è anche quella del medico, oltre che del paziente, il quale non può fare tutto quello che il paziente gli chiede. D'altra parte la promessa di segreto non è assoluta essendo previste deroghe giuridicamente codificate. Il medico, poi, prima di arrivare a rivelare chiede sempre prima che sia lo stesso paziente a rivelarlo. Richiamando il principio di beneficialità si insiste sulla necessità di salvare un terzo da un grave pericolo, pericolo che non potrebbe essere altrimenti evitato. Infine, secondo il principio di giustizia occorre che venga offerta a tutti la possibilità di avere le informazioni necessarie per proteggersi ed evitare il contagio.
Come si vede, dunque, anche il riferimento agli stessi principi della bioetica lascia spazio a diverse interpretazioni, se i principi non sono fondati su una teoria ben precisa che li giustifichi e li armonizzi quando sono in conflitto. Questo è il punto più forte della critica a cui vogliamo fare riferimento nel prossimo paragrafo.
A questo proposito dobbiamo precisare che di fronte alle critiche alla teorizzazione di Beauchamp e Childress vi sono state almeno tre tipi di risposte. La prima è stata quella di mantenere comunque il sistema del riferimento ai principi, rielaborando, però, lo statuto di essi e definendoli all'interno di un quadro teorico unitario. E' quanto è stato fatto, ad es., con intenti e metodologie diversi, e relative diverse conclusioni, sia da E. Sgreccia e dalla sua scuola in Italia20 che da D. Gracia in Spagna21.
L'altra risposta è stata quella di mettere in discussione totalmente un modello bioetico basato su principi, sottolineando la "tirannia" dei principi22, e mettendo invece in primo piano riferimenti alle virtù dei soggetti morali, all'etica del prendersi cura, all'interpretazione (ermeneutica) delle singole storie etiche (etica narrativa), all'approccio femministico all'etica.
La terza risposta, infine, è stata quella di sostituire i vecchi principi con principi nuovi, ripensandoli in modo “concordato” all’interno della comunità morale, contrapponendo in particolare l’etica della sacralità della vita con l’etica della qualità della vita.23 Tutte e tre queste risposte critiche al modello principlistico di Beauchamp e Childress richiedono di essere affrontati in uno spazio proprio. Di seguito rileviamo solo alcuni aspetti degli elementi critici mossi al modello che abbiamo esaminato, rimanendo sempre in un'etica fondata sui principi.
4. La critica al principlismo nord-americano
Già diversi anni fa una importante rivista specializzata, Journal of Medicine and Philosophy, aveva dedicato un numero monografico24 alla critica filosoficadella bioetica, nella quale venivano sviluppate anche numerose e interessanti argomentazioni critiche proprio al principlismo nord-americano25. Qui riassumiamo alcuni punti rimandando a quell'articolo per un approfondimento. Indubbiamente a molti l'eccessiva semplificazione operata da Beauchamp e Childress con i loro principi finiva per sembrare quasi una "formula magica", la formula magica di Georgetown (Georgetown mantra) come ironicamente è stata definita. Clouser e Gert iniziano proprio così, in modo pesante, la loro critica constatando come "per tutte le contrade, sollevantesi dalla folla dei convertiti alla bioetica si può ascoltare il ritornello “beneficialità, autonomia giustizia”', la rituale formula magica pronunciata per risolvere i dilemmi biomedici”.
Di fatto tali principi non hanno "funzionato" come nelle intenzioni di chi li ha proposti, e che li ha inseriti, come si è detto, all'interno di un diagramma che li vorrebbe collegati da una parte alle teorie etiche e dall'altra ai giudizi morali particolari. Questi principi, in realtà, ingannano sia dal punto di vista teorico che dal punto di vista pratico in quanto hanno una vita ed una logica fine a se stessi, staccati da qualsiasi teoria unificata. Essi mancano di una sistematica correlazione fra di loro ed anzi sono spesso in conflitto, un conflitto irrisolvibile, proprio perché privi di una coerente fondazione. Identificano, in definitiva, solo una collezione di situazioni, un'antologia di casi concreti, nessuno dei quali potrebbe essere mai inquadrato in una teoria etica generale. Ma se questi principi non sono in grado di coniugare una teoria di fondo con la pluralità delle decisioni dei casi particolari non vi è il rischio di cadere nel "decisionismo"? Questa impostazione "casistica" dell'etica non limiterebbe per sua natura la connotazione universale delle decisioni prese, concentrandosi esclusivamente sulla gestione degli interessi dei soggetti coinvolti?26 Certamente, la situazione concreta non può essere un'esemplificazione come un'altra di un principio ma è la sfida esistenziale e personale di coloro che vi sonocoinvolti; e la discussione del caso con l'eticista non fa emergere semplici opinioni su ciò che dovrebbe essere fatto ma conduce ad agire secondo ciò che deve essere fatto.
Tuttavia, anche di fronte al caso concreto, non vi può essere una completa "separazione" tra l'etica casistica e la riflessione più generale sui valori etici ed i principi di riferimento27; è necessario, cioè, che vi sia sempre un collegamento con il momento teorico: è solo attraverso la riflessione più generale, infatti, che nella decisione concreta si può raggiungere un affinamento del giudizio valutativo, anche se non si tratta semplicemente di adattare i giudizi morali teorici alle singole circostanze.
D'altra parte, come si è detto, anche sotto le pieghe della concretezza e della complessità del caso particolare si possono nascondere scelte ben precise che rispondono a ben precise impostazioni filosofiche di fondo, in quella che è stata definita la "sindrome dell'antologia"28.
Dal punto di vista della nostra scuola di bioetica - che pure ha ritenuto di dover porre a fondamento della bioetica alcuni principi ben definiti - questa impostazione mostra gravi lacune per una convincente fondazione della bioetica. La critica ad un tale paradigma si articola in diversi punti. Innanzitutto la valenza non univoca dei suddetti principi: a parte il relativismo che emerge quando li si considera doveri prima facie - per cui si propone la necessità del bilanciamento attraverso l'intuizione del soggetto in funzione delle circostanze della situazione - vi è il fatto che quei principi manchino di un'antropologia e una ontologia che li fondi e li giustifichi, così che essi stessi risultano privi di significato: senza definire che cosa è bene e che cosa è giusto per la persona è ambiguo parlare di beneficialità o di giustizia. Se è vero, infatti, che i singoli principi esprimono, indubbiamente, una parte della verità sull'uomo, manca una loro collocazione all'interno di una compiuta metafisica, né sembra sufficiente il semplice bilanciamento intuizionistico nella situazione concreta.
Ancora, questi principi, volutamente privi di una teoria etica unificata che li fondi, non sono in grado di dare una spiegazione della ricchezza della vita morale, rischiando di incasellarla in uno schema astratto.
Quanto poi agli stessi singoli principi ci sarebbe molto da discutere. Riguardo all'autonomia, per es., nella bioetica nordamericana sembra che essa costituisca un sinonimo di “autonomia decisionale”, così che può essere attribuita solo a soggetti coscienti e quindi volenti. Nel pensiero classico, invece, l’autonomia indica prima di tutto una condizione ontologica e, di conseguenza, una regola morale: la persona è autonoma in quanto la regola della moralità è immanente nella sua natura (anche se la sua natura è creata e quindi non è “assolutamente” autonoma). C’è dunque un’autonomia da rispettare anche in chi non ha un’autonomia decisionale e pertanto la medesima autonomia umana prescrive all’adulto consapevole di salvaguardare l’autonomia di chi è inconsapevole difendendone la vita (in quanto inclinazione ontologica di base). Inoltre, la correlazione tra le autonomie non è l’eteronomia29 (che sarebbe imposizione estrinseca e di per sé non moralmente vincolante) ma il segno che ogni autonomia è costitutivamente relazionale (e infatti l’autonomia dell’uomo è fondata dalla relazione creaturale).
In merito al principio di "beneficialità", poi, non vi è alcun riferimento a che cosa significhi "il bene" dell'uomo e, per il principio di giustizia, in cosa consista il dovuto, a chi è dovuto e perché.
Anche in merito alla soggettività, per risolvere il conflitto fra i principi nella situazione concreta vi sono alcune osservazioni da fare. Indubbiamente l'affermazione dell'elemento soggettivo, che è una delle caratteristiche precipue dell'epoca moderna, è importante anche all'interno di una prospettiva personalista, ma occorre che non venga mai disconosciuto il suo riferimento oggettivo, in quanto, ai fini dell'autonomia morale deve compiersi l'unità di soggetto e oggetto. Il riferimento all'elemento soggettivo permette di rafforzare l'autonomia di fronte all'oggettività della norma la quale, tuttavia, viene assunta come costitutiva della libertà stessa; ancora, la sensibilizzazione dell'elemento soggettivo "istituisce il momento entusiastico che ravviva in modo personale la legge del dovere e della ragione, incoraggia la spontaneità dell'iniziativa, che attenua la rigidità delle strutture"30. Ma il riconoscimento dell'oggettività morale è la condizione necessaria perché i principi morali possano avere una universale e piena giustificazione. In campo bioetico, in particolare, è importante fare riferimento ad una morale oggettiva in quanto non è possibile - e non è necessario - sapere se il medico quando agisce rispettando la morale oggettiva lo fa perché ritiene buona quella azione (e dunque l’azione sarebbe anche soggettivamente morale) o soltanto perché è “pagato” per fare quel mestiere o perché teme conseguenze penali (in questi casi l’azione del medico sarebbe conforme al bene oggettivo ma in sé non meritevole).
In ultima analisi, manca, ripeto, una collocazione di questi principi all'interno di una antropologia integralmente e razionalmente considerata, e in particolar modo manca, come si è detto, una definizione di che cosa sia il bene per l'uomo: il bene che dovrà liberamente e responsabilmente perseguire, il bene che non dovrà essere compromesso e dovrà essere promosso in tutti ed in ciascuno.
Da qui il riferimento della nostra scuola ad una teoria unificata che ha nella persona umana il criterio ultimo e dalla quale scaturiscono alcuni corollari, come il rispetto della vita fisica e della integrità sostanziale - non in quanto valori ultimi ma certamente fondamentali - il rispetto della libertà strettamente collegata con la responsabilità della persona, la giustificazione terapeutica dell'intervento medico, l'interpretazione del bene comune non come bene della maggioranza ma come la somma del bene delle singole persone. L'eventuale conflitto fra essi si risolve con la loro armonizzazione all'interno della teoria etica che li ispira.
Ed ecco perché sin dall'inizio della nostra scuola di bioetica si è voluto mostrare che le esigenze della nuova disciplina possono pienamente, coerentemente e sufficientemente fondarsi sui principi derivati dalla tradizione personalista- tomista, partendo dal presupposto che il valore della persona e il suo bene oggettivo non muta col tempo né tanto meno con l'introduzione di nuove tecnologie e col manifestarsi di nuovi problemi etici31.
Facciamo ora, in conclusione, un breve confronto fra i principi della bioetica nordamericana e quelli della bioetica personalista per mostrare come sia diverso il riferimento ai principi (vedi tabella 1).
Tabella 1 - Confronto tra i principi della bioetica
BIOETICA NORDAMERICANA |
BIOETICA PERSONALISTA |
Principio di autonomia |
Principio di libertà-responsabilità |
Principio di beneficialità/non maleficienza |
Principio di proporzionalità terapeutica |
Principio di giustizia |
Principio di socialità e sussidiarietà |
In caso di conflitto: bilanciamento dei doveri |
In caso di conflitto: armonizzazione dei doveri |
Riferimento a teorie etiche diverse |
Riferimento alla persona umana integralmente considerata |
La qualità della vita contrapposta alla sua sacralità |
La sacralità della vita come fondamento della sua qualità |
Da un lato troviamo, dunque, principi che intendono essere una proposta di linguaggio comune per una bioetica cosiddetta pluralista, principi che non vogliono esprimere un legame con una teoria etica ben precisa, ma che pretendono di poter valere all'interno di teorie etiche diverse costituendo solo degli strumentimetodologici per una presunta esigenza di scientificità dell'analisi etica. In caso di conflitto, non avendo questi principi una priorità assoluta, il loro peso relativo deriva dal bilanciamento che nella situazione concreta opera in modo unico ed intuitivo il soggetto morale il quale, in nome della cosiddetta "qualità della vita" potrebbe arrivare anche a subordinare la sacralità della vita ad essa.
Dall'altro troviamo dei principi che scaturiscono come corollari da una visione unitaria della persona, ontologicamente fondata, che ritiene di poter trarre alcuni criteri di riferimento etico riflettendo sull'essenza stessa della persona. E' l'idea antropologicamente integrale della corporeità dell'uomo e della sacralità della vita, non necessariamente intese nel quadro definito di una fede religiosa, ma certamente aperte alla trascendenza. In tale visione i principi - che quanto alla loro denominazione potrebbero benissimo essere sovrapposti a quelli nordamericani (il p. di autonomia con quello di libertà e responsabilità, quello di beneficialità con quello terapeutico, quello di giustizia con quello di socialità) - hanno un significato univoco e mirano a realizzare quel bene intangibile della persona implementando la sua libertà di scelta, strettamente connessa con la responsabilità di essa, accettando un rischio proporzionato di fronte alla finalità terapeutica di un intervento, incoraggiando l'altruismo e un ragionevole sacrificio personale quando è in gioco il bene comune, nei limiti del rispetto della persona. Il personalismo realista vede nella persona umana non solo la capacità di autodecisione e di scelta ma intende affermare anche, e prioritariamente, un statuto oggettivo e ontologico della persona sul quale fondare i valori-guida. E tenendo conto di questo, la persona che prende la decisione si rende conto di dover impegnare in essa tutto ciò che è, la sua esistenza e la sua essenza, il suo corpo e il suo spirito, facendosi responsabilmente carico in questa decisione non solo della sua persona ma anche delle altre persone che sono coinvolte nella scelta.
In questa prospettiva il principio non è fine a se stesso ma serve per leggere la realtà, per cui nel caso di un conflitto questo di fatto è apparente in quanto il riferimento alla persona nella sua globalità aiuta ad identifica una gerarchia fra i principi e dunque ad armonizzarli fra loro quando sembrano in conflitto.
Certamente, la gerarchia non è solo teorica e il caso singolo assume un significato rispetto ai principi generali: in esso si possono trovare altri valori non prevedibili in generale. Questo non vuol dire che nel caso singolo le cose cambiano, che i principi generali non contano: si tratta, invece, di rivedere nuovamente la gerarchia dei valori alla luce dei valori rilevati nella situazione particolare. Infine, la concezione personalista della sacralità della vita non si contrappone alla qualità della vita ma si pone come fondamento della stessa.
5. Conclusioni
Da più parti sono state mosse voci critiche e di insoddisfazione nei confronti della bioetica nord-americana fondata sul principlismo. Non sempre, tuttavia, le alternative proposte sono state e sono in grado di dare una risposta a quella esigenza di cui abbiamo parlato nell'introduzione e cioè di offrire indicazioni e orientamenti in senso "forte", rendendo ragione del valore assiologico-prescrittivo che è contenuto nelle scelte.
Ci sembra che un'antropologia personalista fondante possa conferire un coerente collegamento fra i vari principi, indipendentemente dalla loro designazione semantica, perché solo il riferimento ad un bene oggettivo integrale, come quello della persona, può evitare il grosso rischio di sfociare nel più assoluto relativismo e riduzionismo etico. Ci meraviglia che molti cultori della bioetica, educati alla scuola di Tommaso, non abbiano saputo intravvedere nel personalismo tomista i presupposti di una valida e coerente fondazione della bioetica preferendo attingere dai principi "nuovi" della bioetica nord-americana. Il fatto è che anche oltre oceano si comincia riconsiderare quei principi, a "ricostruire l'etica medica" come dice E.D. Pellegrino. A questi e a D.C. Thomasma si deve, per es., la collocazione del principio di beneficialità all'interno di quella retta ragione che Aristotele e Tommaso hanno considerato essenziale per la virtù, ed è ad una bioetica basata sulla virtù del medico che la scuola di Pellegrino sta ritornando confermando quanto ci è sembratodi dover costruire nell'ambito della bioetica italiana32. Ricordando quanto soleva ripetere una insigne tomista di recente scomparsa, Sofia Vanni Rovighi, crediamoche il compito dello studioso di bioetica, oggi, non sia quello di cercare il Nuovo ma di continuare a cercare e difendere il Vero, pur nelle situazioni indubbiamente nuove che il progresso biomedico ha creato.
6. Note e Bibliografía
§ Una versione preliminare di questo articolo è comparsa in lingua spagnola col titolo Principios de
la bioética norteamericana y crítica del principlismo sulla rivista Bioetica y Ciencias de la Salud
1998, 3(1): 102-110. Ringrazio Adriano Pessina per avermi fornito interessanti spunti di riflessione
sull’argomento.
1 Ne citiamo solo alcuni: ENGELHARDT H.T., The foundations of bioethics. Oxford University Press,
New York 19962; SCARPELLI U., Bioetica. Alla ricerca dei principi, Biblioteca della Libertà 1987,
99: 7-32; GRACIA D., Fundamentos de bioética, Eudema, Madrid 1989; GRODIN A.M. (ed.), Meta
Medical Ethics: The Philosophical Foundations of Bioethics, Kluwer Academic Publishers,
Dordrecht 1995; GERT B., CULVER C.M., CLOUSER K.D., Bioethics: a Retourn to Fundamentals,
Oxford University Press, Oxford 1998.
2 SGRECCIA E., Manuale di bioetica. I-Fondamenti ed etica biomedica, Vita e Pensiero, Milano
1999.
3 DELL’ORO R., Antropologia ed etica. Oltre la bioetica nordamericana, Rivista di Teologia Morale
1995, 106: 203-220.
4 Recentemente sono stati pubblicati alcuni volumi che riesaminano in modo critico lo sviluppo
storico della bioetica come disciplina e la sua metodologia: cfr. JONSEN A.R., The birth of bioethics,
Oxford University Press, Oxford 1998; JECKER N. S., JONSEN A.R., PEARLMAN R.A., Bioethics. An
Introduction to the History, Methods, and Practice, Jones and Bartlett Publishers, Sudbury 1997.
5 Cfr. l'analisi fatta da VIAFORA C., I principi della bioetica, Bioetica e Cultura 1993, 3: 9-37
6 DEVETTERE R.J., The principled approach: principles, rules, and action, in: M.A. GRODIN (ed.),
Meta Medical Ethics. The philosophical foundations of bioethics, Kluwer Academic Publishers,
Dordrecht 1995, pp. 27-47.
7 La teorizzazione sistematica di questo è contenuta nella prima edizione del famoso volume di
BEAUCHAMP T.L., CHILDRESS J.F., Principles of biomedical ethic, Oxford University Press, New
York 1979 che ha ricevuto successivamente diverse edizioni (l’ultima che ho potuto consultare è la 4
edizione, del 1994).
8 "Studio sistematico della condotta umana nel campo delle scienze della vita e della salute, condotta
esaminata alla luce di valori e di principi morali" (cfr. Reich W.T. [ed.]: Encyclopedia of Bioethics,
Free Press, New York 1978, p. XIX). In conseguenza della crisi del principlismo che si sarebbe
successivamente verificata, come vedremo, la nuova definizione di bioetica, contenuta nella nuova
edizione dell'Encyclopedia (MacMillan, New York 1995) non fa più riferimento a principi per lo
studio delle scienze della vita e della salute ma a diverse metodologie etiche e ad una impostazione
interdisciplinare ("Studio sistematico delle dimensioni morali - inclusa la visione morale, le decisioni,
la condotta e le politiche - delle scienze della vita e della salute, utilizzando varie metodologie etiche
con una impostazione interdisciplinare"). Diverso è il significato dei principi laddove si consideri la
diversa interpretazione della bioetica data da V.R. Potter ["una nuova disciplina che combini le
conoscenze biologiche con la conoscenza del sistema dei valori umani" (cfr. Bioethics: Bridge to the
future, Prentice-Hall, Englewood Cliffs 1971)]. In questa visione naturalistica la bioetica
rappresenterebbe un ponte tra ciò che è e ciò che deve essere, per cui i principi morali devono essere
identificati direttamente nella natura.
9 THE NATIONAL COMMISSION FOR THE PROTECTION OF HUMAN SUBJECTS OF BIOMEDICAL AND
BEHAVIORAL RESEARCH, The Belmont Report: Ethical Principles and Guidelines for the Protection
of Human Subjects of Research (April 18, 1979), US Government Printing Office. Alcune
considerazioni sul Rapporto Belmont e sul significato dei principi sono fatte da VIAFORA, I principi
della bioetica, o.c.
10 Il contributo di Beauchamp e Childress è a ragione collocato nella storia della bioetica ed è stato
molto influente fra tutti gli studiosi di bioetica: cfr. CALLAHAN D., Bioethics, in Encyclopedia of
Bioethics, MacMillan, New York 1995, pp. 247-255; DEVETTERE, The principled approach, o.c.
11 EMANUEL E.J., The beginning of the end of principlism, Hastings Center Report 1995, 25(4): 37-
38.
12 CLOUSER K.D., GERT B., A critique of principialism. J. Med. Phil. 1990, 15: 219-236
13 CHILDRESS J.F., The place of authonomy in bioethics, Hastings Center Report 1990, 20(1): 12-17.
14 BEAUCHAMP & CHILDRESS, Principles of biomedical ethics (3rd ed, 1989) pp. 67-119.
15 per es. ENGELHARDT JR. H.T., The foundations of bioethics, Oxford University Press, New York
1986.
16 ROSS W.D., The foundations of ethics, Clarendon Press, Oxford 1939.
17 VIAFORA, I principi della bioetica, o.c., p. 14
18 EMANUEL, The beginning of the end of principlism, o.c
19 Riportato in GILLON R., Philosophical medical ethics, John Wiley & Sons, Chichester 1986
20 SGRECCIA E., Bioetica. Manuale per medici e biologi, Vita e Pensiero, Milano 1986, pp. 88-107
21 GRACIA D., Fundamentos de Bioetica, Eudema, Madrid 1989.
22 Un contributo a questo approccio prese le mosse da un famoso saggio di Stephen Toulmin: cfr.
TOULMIN S., The Tyranny of Principles, The Hastings Center Report 1981, December: 31-39.
23 Esponente di questo approccio è Peter Singer: cfr. SINGER P., Rethinking Life and Death. The
Collapse of our Traditional Ethics, St. Martin’s Press, New York 1994.
24 CLOUSER K.D., KOPELMAN L.M. (Eds), Philosophical critique of bioethics, J. Med. Phil. 1990,
15(2).
25 Si veda in particolare l'articolo di CLOUSER K.D., GERT B., A critique of principialism. J. Med.
Phil. 1990, 15: 219-236. Più recentemente questi stessi autori insieme ad altri hanno prodotto un
volume nel quale dimostrano ancora una volta il limiti della teoria dei principi (cfr.: GERT, CULVER,
CLOUSER, Bioethics: a Retourn to Fundamentals, op. cit.
26 VIAFORA C. (ed), Vent'anni di bioetica, Padova, Fondazione Lanza, 1990; 44-45.
27 SGRECCIA E., Bioetica clinica, Medicina e Morale 1988; 3/4: 395-396.
28 CLOUSER-GERT, A critique of principialism, op.cit. Ho analizzato questo aspetto anche in un altro
mio articolo al quale volentieri rimando: SPAGNOLO A.G., La sindrome dell'antologia e l'etica vista
dagli eretici, Giornale Italiano di Cardiologia 1993, 23(7): 743-746.
29 Secondo Malherbe, l’autonomia presenterebbe il paradosso di essere nulla se non è reciproca, vale
a dire che nessuna autonomia sarebbe possibile all'infuori di un contratto sociale che ne garantisca
l'esercizio. Esisterebbe dunque una radicale reciprocità dell'essere umano per cui l'autonomia
correttamente intesa è legata all'eteronomia che è il suo contrario dialettico e consiste nell'esercizio
responsabile della libertà (cfr.: MALHERBE J.F., Per un etica della medicina, Edizioni Paoline,
Cinisello Balsamo 1989, pp. 54-58).
30 SANCIPRIANO M., v. Principi morali, in: Enciclopedia Filosofica, Edipem, Roma 1979, cc. 929-
932.
31 SPAGNOLO A.G., PALAZZANI L., SGRECCIA E., I principi della bioetica alla luce del pensiero
tomista. In: Atti del IX Congresso Tomistico Internazionale, vol. IV (Etica, Sociologia e Politica
d'ispirazione tomista), Libreria Editrice Vaticana 1991, pp. 229-236.
32 PELLEGRINO E.D., THOMASMA D.C., For the patient's good, Oxford Univerity Press, New York
1988.
¿Cómo citar esta voz?
Sugerimos el siguiente modo de citar, que contiene los datos editoriales necesarios para la atribución de la obra a sus autores y su consulta, tal y como se encontraba en la red en el momento en que fue consultada:
Spagnolo, Antonio G., I PRINCIPI DELLA BIOETICA NORD-AMERICANA E LA CRITICA DEL “PRINCIPLISMO”, en García, José Juan (director): Enciclopedia de Bioética.