LA BIBBIA E LE GUERRE DI DIO

Autor: Gianfranco Cardenal Ravasi

ÍNDICE

1. Il campo di battaglia come santuario
2. La beatitudine del massacratore
3. Un "apologia" dell’anatema
4. Un Dio "geloso" e "irato"
5. Porgere l’altra guancia o la spada?

Note

1. Il campo di battaglia come santuario

 
In un suo saggio del 1978 R. Schwager osservava che nell’Antico Testamento “nessun’altra attività o esperienza umana è menzionata così spesso come la violenza, più del lavoro, dell’economia, della famiglia, della sessualità, della natura, della scienza”. E continuava elencando più di 600 passi che ci informano sul fatto che “popoli, re o singoli individui hanno attaccato altri, li hanno annientati o uccisi”, più di 1000 passi in cui è l’ira di Dio a scatenarsi “punendo con la morte, la rovina, con fuoco divorante, giudicando, vendicando e minacciando l’annientamento” e più di 100 passi in cui è il Signore stesso a “ordinare espressamente di uccidere uomini”1. Di fronte a questa massa sanguinaria di dati parrebbe inevitabile approdare alla conclusione del famoso esegeta J. Wellhausen che non esitava ad affermare che “il campo di battaglia fu non solo la culla della nazione, ma anche il suo più antico santuario: là era Israele, là era Jhwh”2. E persino per il Nuovo Testamento ci si trova di fronte a un “disinvolto parlare di soldati e di servizio militare”, come fa notare A. Vögtle in un saggio sulle fonti neotestamentarie del tema della pace3.

La macabra iridescenza della violenza è, in pratica, totalmente perlustrata dalle pagine bibliche: si va dal conflitto intertribale (ad esempio, Caino e Abele) alla violenza cultica col sacrificio animale e talora umano (sia pure con la relativa condanna per questa prassi esterna a Israele ma talvolta adottata), dall’attacco verbale coi Salmi imprecatori al terrore teofanico (Es 19, 16; Gdc 5, 4-5; Sal 46, 7; 68, 8-9; Am 1, 2; Mi 1, 3-4; Is 63, 19), dalla violenza “strutturale” codificata nella stessa legislazione (ad esempio, con la pena di morte o l’obbligo del “taglione”) fino alla guerra santa e al Dio guerriero, ma anche alle raffigurazioni escatologico-apocalittiche di stampo bellico o marziale. La questione coinvolge evidentemente aspetti storiografici: per tutti, pensiamo a quello connesso con le operazioni di conquista e di insediamento nella Terra promessa, fenomeno per altro più complesso di quanto faccia sospettare una lettura di superficie dei testi biblici dedicati a questo evento, fenomeno che continua in altre forme fino all’epoca monarchica.

Coinvolto è anche l’aspetto letterario perché le fonti presenti nelle varie pagine bibliche non sono al riguardo omogenee. Le tradizioni più arcaiche curiosamente “storicizzano” nella vicenda dell’Esodo dall’Egitto il motivo mitico della teomachia, che per l’antico Vicino Oriente era la legittimazione archetipica delle guerre umane, attribuendo così allo scontro un valore più “naturale”  e non necessitato, come accadeva nella ciclicità reiterativa del mito. La storiografia cosiddetta “deuteronomistica” (GsGdc1-2 Sam1-2 Re) presenta, invece, un’analisi più complessa che, da un lato, conosce il concetto di herem o di “anatema” (su cui ritorneremo) e lo formalizza ma, dall’altro, introduce un’idea teologico-giuridica della guerra di conquista di Israele, vista come un atto di Jhwh, signore cosmico che distribuisce i suoi feudi alle varie nazioni. Egli riserva la terra di Canaan a Israele sulla base di un protocollo codificato nel giuramento fatto ai patriarchi, cioè ai padri fondatori della nazione. Non manca, però, anche una progressiva “laicizzazione” dell’idea di guerra e di esercito, messa tuttavia in crisi nella ripresa simbolica dei testi apocalittici che trasferiscono la tipologia bellica in sede teologica.

Non si può, allora, a livello letterario procedere con sincronie affrettate. E, comunque, necessario ricordare che, compiuti gli approcci storiografici  e letterari indispensabili, permane un ultimo fondamentale esame da eseguire sui testi sacri “violenti” ed è quello ermeneutico, sempre più calibrato ai nostri giorni, anche con l’ausilio di prospettive esterne alla tradizionale interpretazione teologica. Pensiamo, ad esempio, all’adozione da parte di non pochi esegeti della teoria espressa da R. Girard riguardo alla “violenza e al sacro”, teoria che già in proprio teneva conto dei dati biblici, sia anticotestamentari sia neotestamentari, teoria accolta con particolare favore da due esegeti, N. Lohfink e il citato R. Schwager4. In questo orizzonte immenso di problemi e di analisi noi ci accontenteremo di ritagliare un perimetro molto circoscritto, attestandoci su una lettura globale, molto semplificata ed essenziale dei testi che mettono in scena la cosiddetta “guerra santa”, anche se tale locuzione è assente nelle Scritture ove è reperibile piuttosto la rara espressione “santificare una guerra” (ad esempio, in Gl 4, 9, ove però è usata in senso ironico)5. Da quell’orizzonte muoveremo per una riflessione di taglio sostanzialmente ermeneutico, allargando - sia pure limitatamente - il nostro panorama anche ad alcune componenti collaterali e gettando uno sguardo pure sul  dato neotestamentario.

2. La beatitudine del massacratore

“Acclamino i hasîdîm nella gloria,/ facciano festa sui loro giacigli./ Le lodi di Dio sulla loro bocca,/ la spada a doppio taglio nella loro mano/ per far vendetta tra le genti (gôjîm), rappresaglie contro le nazioni,/ per stringere in catene i loro re, i loro nobili in ceppi di ferro,/ per eseguire contro di essi il giudizio già scritto:/ questo è un onore per tutti i hasîdîm!”. Così, quasi anticipando il modello della “croce in una mano e della spada nell’altra” del Chant du pélerinage d’Harold di Alphonse de Lamartine, s’avanzavano cantando i hasîdîm, cioè “i pii, i fedeli” ebrei durante la ribellione del II sec. a.C. contro il re ellenista di Siria, Antioco IV Epifane, ribellione ordita dal clan dei Maccabei, tra i quali spiccava Giuda (seguito dai fratelli Gionata e Simone), le cui gesta sono esaltate retoricamente ed epicamente nei due libri deuterocanonici greci dei Maccabei. “In quei giorni” - si legge nel primo di quei libri - “ai Maccabei si unì il gruppo degli Asidei [cioè i hasîdîm], eroi d’Israele, tutti volontari della Legge” (1 Mac 2, 42). Il canto che abbiamo citato è riportato nel Salmo 149, ed è forse l’inno di battaglia e di fede usato da questi combattenti del II sec.a.C. per la libertà religiosa e politica d’Israele.

Presentati come sacerdoti della guerra santa, i   hasîdîm sono gli eredi di quella santa violenza che - come si diceva - pervade non poche pagine dell’Antico Testamento e che ha creato molte difficoltà alla stessa tradizione teologica cristiana, talora tentata “ereticalmente” (pensiamo a Mani e a Marcione) di rimandare l’intero Antico Testamento sotto l’egida di un Dio negativo e violento, dualisticamente opposto al Dio cristiano dell’amore. I santi militari cantano inni “sui loro giacigli”, nelle notti d’attesa, prima delle loro battaglie. E all’alba, eccoli, coi canti d’Israele in bocca e con le mani che impugnano la micidiale “spada a doppio taglio”. I cavalieri di Sion si scagliano nella mischia, implacabili, scatenando rappresaglie, incatenando re e generali, convinti dell’appoggio di Dio di cui eseguono “il giudizio già scritto”. Ma nella loro voce sembra echeggiare un altro grido, quello degli ebrei esuli di quasi quattro secoli prima che contro l’oppressore babilonese scagliavano questa terribile beatitudine sarcastica del massacratore: “Figlia di Babilonia devastatrice,/ beato chi ti renderà il contraccambio di quanto ci hai fatto!/ Beato chi afferrerà i tuoi piccoli/ e li sfracellerà contro la pietra!” (Sal 137, 8-9). La furibonda imprecazione, formulata secondo la legge del taglione, evoca una truculenta prassi orientale delle conquiste militari: i bambini sfracellati contro i massi e lo sventramento delle donne incinte volevano provocare, simbolicamente e concretamente, la fine di un popolo nelle sue stesse radici.

Risalendo lungo il fiume della storia biblica si giunge sino alla conquista della terra promessa, da noi già evocata. Essa costituisce una sorta di archetipo di “guerra di Dio” accompagnata da un cumulo di sacre nefandezze: “Giosuè ordinò al popolo: Lanciate il grido di guerra perché il Signore consegna in vostro potere la città di Gerico! Quanto è in essa sia votato allo sterminio per il Signore… State lontani da ciò che è votato allo sterminio e non prendete nulla di ciò che è votato allo sterminio per non rendere votato allo sterminio lo stesso accampamento d’Israele… Votarono allo sterminio la città, passando a fil di spada ogni essere ivi residente, dall’uomo alla donna, dal giovane al vecchio, ma anche il bue, l’ariete e l’asino”. Echeggia nel racconto del libro di Giosuè (6, 16-18.21), quasi come in un lugubre ritornello, l’espressione “votare allo sterminio”, basata sul vocabolo herem (la cui radice è presente pure nell’arabo harem, anche da noi usato) che di per sé indica una realtà intangibile perché di proprietà divina o superiore e, per traslato, una realtà da sacrificare, da estinguere totalmente in un olocausto offerto al legittimo proprietario, Dio, il condottiero della guerra santa (Is 13, 3; 5, 26), vessillo, scudo e spada di Israele (Es 17, 15; Dt 33, 29), generale ed eroe (Es 15, 3; Sal 24, 8), guida e sostegno dei combattenti (Gs 10, 14; 1Sam 18, 17; 25, 28; Is 13, 4), terrore dei nemici (Dt 7, 20). Basti solo citare Is 42, 13: “Il Signore avanza come un eroe, come un guerriero eccita il suo furore: grida, lancia urla di guerra, si mostra forte contro i suoi nemici”.

Proprio perché la vittoria è considerata come dono divino, è inevitabile che il bottino di vite e di cose sia di proprietà del Signore (Gs 7, 1) e la sua consumazione nell’eccidio e nella distruzione sia da intendere come un olocausto sacrificale. Si combinano, così, tra loro aspetti bellici e aspetti cultici. E’ per questo che i soldati devono prepararsi alla guerra non solo studiando i piani d’attacco e le strategie, ma anche con rituali catartici e propiziatori, quasi per accedere a un atto liturgico (Is 13, 3; Ger 6, 4-5; 22, 7; Gl 4, 9-17; 1Sam 21, 6; 2Sam 11, 11)6. Il herem domina soprattutto le pagine che descrivono la conquista della terra di Canaan, considerata come il dono per eccellenza di Jhwh. Esso ritma l’attacco contro la città di Ai: “Giosuè non ritirò la mano che brandiva il giavellotto finché non ebbero votato allo sterminio tutti gli abitanti di Ai” (Gs 8, 26). Segna la campagna militare contro le città meridionali di Canaan, sempre in occasione della conquista della terra promessa: “Giosuè s’impadronì di Makkeda e la passò a fil di spada, votò allo sterminio ogni essere vivente che vi abitava e non vi lasciò nessun superstite” (Gs 10, 28-30). La litania prosegue per le città di Lachish, di Eglon, di Hebron, di Debir e di tutto il Neghev, ed è sigillata da una conclusione impressionante: “Giosuè non lasciò alcun superstite e votò allo sterminio ogni essere che respira, come aveva comandato il Signore, Dio d’Israele” (Gs 10, 40). Terribile è proprio quel comando di Dio, un Dio che giunge al punto di condannare la compassione umana nei confronti del prigioniero inerme: è in suo nome che il profeta Samuele investe con una maledizione il re Saul che aveva risparmiato Agag, re degli amaleciti, e conservato una parte del bottino di guerra senza votarlo integralmente al herem.

Questa prassi, codificata in Dt 20, 10-18 ed estesa anche alle città di Israele che abbiano rinnegato Jhwh da Dt 13, 13-18, non è del tutto costante e omogenea (accanto all’annientamento radicale, si prospettano casi in cui si possono risparmiare alcuni beni) e soprattutto non permane nell’arco intero della storia biblica. Anzi, lo stesso Deuteronomio - che ci offre al riguardo i dati fondamentali - e la storiografia deuteronomistica che, ad esempio, col libro di Giosuè, mette in scena la prassi del herem durante la conquista della terra promessa, in realtà, al momento in cui queste opere sono composte (VII sec. a.C.), costituiscono “con buona probabilità una semplice difesa letteraria contro la propaganda imperiale assira, la quale metteva consapevolmente in risalto il terrore militare dell’Assiria. Sull’esempio del primitivo tempo nazionale descritto negli stessi termini, l’opera storica deuteronomistica mostrava che Jhwh era capace, a vantaggio di Israele, di atti di sterminio ancora più grandi di quelli che il dio Assur poteva compiere in favore dei propri adepti”7. In altri termini, si tratterebbe di un’operazione di propaganda nazional-religiosa e, quindi, almeno al tempo in cui si leggevano queste pagine, si compiva una sorta di “demitizzazione” della loro veemente carica marziale. La stessa ermeneutica dev’essere adottata anche per la ripresa del topos dell’anatema e della guerra santa sia nella salmografia sia nella letteratura profetica, soprattutto di impronta escatologica (Is 11, 15; 34, 2.5; 43, 28; Ger 50, 21.26; 51,3; Mi 4, 13; Zc 14, 11; Ml 3, 24; Dn 11, 44).

Nonostante questa “estenuazione” semantica delle pagine bibliche di herem, è indubbio però che la loro permanenza nelle Scritture e la relativa ingombrante figura del Dio guerriero e vendicatore sconcertino il lettore attuale. Uno sconcerto che ha impedito ai cattolici, dopo il Concilio Vaticano II, di adottare nella liturgia i cosiddetti “salmi imprecatori”, carichi di invettive e di fulmini: “Dio, spezza loro i denti in bocca,/ rompi, Signore, le loro zanne da leoni!/ Si dissolvano come acqua e con essa si disperdano!/ …/ Passino come la bava della lumaca che si scioglie,/ come aborto di donna non vedano il sole./ All’improvviso li strappino via rovi spinosi o belva o incendio!/ Gioisca il giusto nel vedere la vendetta,/ lavi i suoi piedi nel sangue degli empi” (cfr. Sal 58, 7-11; si veda anche il Sal 109). Uno sconcerto che evoca certi fantasmi (quasi il “Gott mit uns” dei nazisti), quando si legge l’arcaico grido di guerra degli ebrei conservato nel libro dell’Esodo: “Jhwh è il nostro vesillo di guerra!” (Es 17, 15). Uno sconcerto che continua quando il lettore vede nella Bibbia Dio ripetutamente dipinto come un comandante supremo, un “Signore potente [generale] in battaglia”, avvolto in un’armatura invincibile (Es 15, 3), mentre scaglia grandine e fulmini sui nemici d’Israele (Gs 10, 10-11), suscitando il panico nelle file avversarie (Es 23, 27-28). La direzione strategica delle guerre d’Israele è, infatti, affidata a Jhwh, presente sul suo trono mobile, l’arca dell’alleanza, condotta nei campi di battaglia quasi fosse un palladio di vittoria (1 Sam 4, 7; 2 Sam 11, 11). Come si è detto, i soldati diventano i sacerdoti di un rituale sanguinario: prima della guerra devono essere “santificati”, cioè purificati e consacrati. Insomma, la guerra in Israele - lo stesso avverrà poi per la gihad musulmana - può essere un atto sacrale e le guerre d’Israele possono diventare “le guerre di Jhwh”, come spesso si ripete (Es 17, 16; Nm 21, 14; 1 Sam 25, 28).

3. Un’ “apologia” dell’anatema

Di fronte a questa lista, incompleta ma sufficiente, come giustificare il fatto che tante sante crudeltà e violenze facciano parte di un libro sacro, considerato dai credenti ispirato da Dio e “lampada per il loro passi” (Sal 119, 105) nel cammino della vita? Molte giustificazioni delle guerre di religione si sono basate su tali passi e i lettori fondamentalisti della Bibbia devono o abbandonare la loro interpretazione “letteralistica” oppure allegramente dedicarsi a compiere stragi contro il nemico infedele, cosa che non di rado fanno, limitandosi però oggi alla violenza verbale. In realtà, come si è già ribadito, il problema è squisitamente ermeneutico: queste pagine meritano un’interpretazione corretta che non le “schiodi” dalla propria storicità, ma neppure le canonizzi automaticamente nel loro tenore immediato. La via maestra per comprendere simili testi marziali e violenti è quella di tener presente la qualità strutturale ed essenziale della rivelazione biblica: essa è per eccellenza storica, cioè innestata nella trama faticosa e tormentata della vicenda umana (si leggano, ad esempio, i cosiddetti “Credo storici”, professioni di fede di Israele presenti in Dt 26, 5-9; Gs 24, 1-13 e Sal 136). Non è una parola sospesa nei cieli e comunicabile solo estaticamente, ma è concepita come un germe che si apre la strada sotto il terreno sordo e opaco dell’esistenza terrena. La Bibbia si autopone come storia progressiva d’una rivelazione di Dio e d’una rivelazione progressiva del senso della nostra storia apparentemente insensata o per lo meno convulsa e confusa.

In questa economia generale della Scrittura, cioè secondo l’ermeneutica teologica postulata dalla Bibbia nella sua realtà intima, le pagine violente sono la rappresentazione di un Dio paradossalmente paziente che, adattandosi e sopportando la brutalità e il limite dell’uomo, cerca di condurlo verso un altro orizzonte. E’ per tale motivo che, accanto all’herem si trovano espressioni di compassione, di amore e di apertura nei confronti dello straniero, fino a far balenare un certo universalismo e a raggiungere un ideale di tolleranza: “Tu, padrone della forza, giudichi con mitezza,/ ci governi con molta indulgenza./ …/ Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo/ che il giusto deve amare l’umanità” (Sap 12, 18-19). Nel libro del Deuteronomio (capitolo 20) si tenterà - come si diceva - anche di “laicizzare” la guerra santa riportandola al suo ambito politico; successivamente sembra apparire in Israele un corpo di soldati professionisti così da separare sempre più fede e questioni politico-militari, privandole di coperture sacrali. Non bisogna poi ignorare un dato a prima vista banale e scontato ma utile per un corretto ridimensionamento del fenomeno bellico sacrale biblico. Scriveva l’esegeta americano J.L. McKenzie nel suo Dizionario biblico: “I lettori moderni considerano la concezione ebraica della guerra santa come un genere primitivo di moralità: è vero, ma è anche vero che tale concezione non era molto più primitiva della concezione attuale della guerra”8.

Proprio perché legate a coordinate storiche ben precise e a una situazione socioculturale circoscritta, queste pagine violente non devono essere assunte semplicisticamente col loro rivestimento simbolico, ma devono essere “demitizzate” per isolare anche alcuni valori ritenuti capitali da Israele ed espressi per via traversa. Pensiamo, ad esempio, alla costante premura di salvaguardare la purezza della fede e della propria identità religiosa. In una religiosità simbolica la preoccupazione principale nel risparmiare qualcosa alla distruzione militare non era legata a motivi umanitari, e neppure a interessi economici immediati, quanto piuttosto a ragioni che la Bibbia considera di lotta all’idolatria. Conquistare gli idoli del popolo vinto significava allargare la propria sfera di protezione divina e arricchire il pantheon del dio nazionale. E’ per questo che si richiede - come si è visto - la distruzione sacrificale della preda di guerra: “Radunerai tutto il bottino e lo brucerai nel fuoco come sacrificio per il Signore tuo Dio” (Dt 13, 17). L’“anatema” o herem è come un grande olocausto offerto a chi ha guidato Israele nella vittoria: tutto dev’essere consumato dal fuoco e chi sottrae qualcosa per idolatria o egoismo compie un sacrilegio. Certo, è sempre una via primitiva e superabile per educare all’autenticità e alla purezza religiosa, ma essa nasce, si svolge e si spiega nell’ambito di una mentalità abituata al concreto, al mondo dei simboli e legata a una particolare società e cultura.

Inoltre, questa mentalità ben definita si esprime attraverso un linguaggio - com’è quello biblico e, in genere, orientale - che ama l’eccesso, l’esasperazione dei toni, i colori accesi, l’uso di immagini barocche o surreali. Il repertorio pittoresco di imprecazioni che intarsiano il Salmo 58 o il 109 va ricondotto e compreso all’interno di una psicolinguistica che ama la sottolineatura, l’incisività, l’impressionismo. E’ proprio sulla base di questa struttura culturale che il male dev’essere sempre incarnato in un avversario concreto, anche quando è una entità sociale o metafisica. Detto in altri termini, l’odio per il male e l’ansia per la giustizia si manifestano pienamente scagliandosi contro nemici rappresentati come vivi e concreti, ossia personificati. In questa luce i Salmi imprecatori esprimono la passione per il bene e lo schierarsi per la giustizia attaccando un male personificato nei “nemici”, un’esigenza, questa, dettata anche dalla propensione semitica alla concretezza e non all’idealizzazione. La stessa concezione di Jhwh come generale supremo, che offre al suo popolo quasi su un vassoio le città conquistate, è una modalità simbolica per indicarne la personalità. Dio non è un’energia cosmica misteriosa, non è un’entità vaga o un essere mitico, ma per la Bibbia è una persona che agisce, che entra nella storia, che si schiera, opera, interviene, rivelandosi dotata di passione e volontà, di comprensione e amore. La nostra “apologia” dell’anatema o herem ci conduce, quindi, a un’immagine divina personale, morale, vivente, anche se la via adottata per disegnarla è obliqua e aliena alla nostra sensibilità.

4. Un Dio “geloso” e “irato”

Rilevante è, infatti, la concezione di un Dio morale sottesa a questa ancor primitiva teologia. Egli non è indifferente nei confronti del male, come si dichiara con un curioso e vivace antropomorfismo nell’incipit del racconto del diluvio: “Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male. E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo. Il Signore disse: Sterminerò sulla terra l’uomo che ho creato” (Gn 6, 5-7). Egli è, perciò, un Dio della violenza e dello sterminio nei confronti di ciò che è male. Naturalmente la determinazione di ciò che è male è spesso formulata “storicamente” dalla Bibbia e, come tale, l’atto giudiziario divino può essere ridiscusso, ma il principio in sé della moralità divina permane ed è sotteso alla categoria del herem.

Ci sono, a questo punto, due corollari da introdurre. Da un lato, la “moralità” del Dio biblico lo rende “collerico” nei confronti del male: la sua ira, oltre che essere segno di esistenza e di personalità, è anche un indizio della sua non indifferenza e quindi della sua giustizia nei confronti delle violazioni della morale. D’altro lato, lo stesso esclusivismo insito al monoteismo non può che porre Jhwh in opposizione  netta con l’idolatria, considerata come la caratteristica delle altre culture religiose con le quali Israele entra in contatto. Nasce, così, la categoria simbolica della “gelosia”. Cominciamo proprio da quest’ultima “passione” divina per meglio articolare la nostra “teologia della violenza”. Passeremo poi all’antropomorfismo dell’“ira” di Dio, intimamente connesso all’eccitazione della “gelosia”.

“Dove sono gli strali che lanci, grande Dio, nel tuo giusto sdegno? Non sei più il Dio geloso? Non sei più il Dio delle vendette?”. Questo grido che risuona nell’atto IV della tragedia Atalia di Racine (1691) è un tessuto di allusioni bibliche. Ad esempio, nel Decalogo, il monito del primo comandamento si concludeva così: “Non ti prostrerai davanti agli idoli e non  li servirai perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso” (Es 20, 5). ’El qanna’, “Dio geloso”, è il titolo che risuona solennemente anche in capo al secondo Decalogo, quello del rinnovamento dell’alleanza al Sinai dopo il delitto idolatrico del vitello d’oro: “Tu non devi prostrarti ad altro Dio, perché il Signore si chiama Geloso: egli è un Dio geloso” (Es 34, 14). Qanna’ diventa quasi uno dei nomi propri del Dio d’Israele. Alla gelosia si associa l’immagine del fuoco divoratore: “Il Signore tuo Dio è un fuoco divoratore, un Dio geloso” (Dt 4, 14). La “gelosia” del Signore agisce contro l’ingiustizia e in difesa della pace (Is 9, 6); salva un “resto” di ebrei fedeli che escono indenni dalle turbolenze della storia (Is37, 32); è una gelosia ardente che ha connotati marziali (Is 42, 13) e paradossalmente atterrisce Israele solo quando svapora (Is 63, 15) perché essa bruciava i nemici (Zc 1, 15) e il suo venir meno è pericoloso per il popolo eletto. La rappresentazione più bella di tale passione divina, considerata da Isaia il manto nobile di Dio (59, 17), è contenuta nella dichiarazione del Signore degli eserciti riportata dal profeta Zaccaria: “Sono acceso di grande gelosia per Sion,/ un grande ardore/ m’infiamma per lei” (Zc 8, 2).

Che cosa significa concretamente questo antropomorfismo? Il punto di partenza è facile da identificare se è vero, come ha scritto l’antropologo P. Van Sommers, che è “estremamente difficile, se non addirittura impossibile, trovare società in cui la gelosia non esista”9. Nella Bibbia il motivo ricorre spesso ed è correlato all’esperienza nuziale: “la gelosia accende lo sdegno del marito” (Pr 6, 34), mentre nel Cantico dei Cantici si ricorda che “la gelosia è inesorabile come gli inferi” (Ct 8, 6), e nel capitolo 5 dei Numeri si incontra una folcloristica “ordalia della gelosia”, una specie di verifica fisiologico-sacrale di un adulterio non provato documentariamente. Ma, tenendo presente il contesto socioculturale d’Israele, secondo il quale la donna era prima di tutto un bene di proprietà del marito che l’aveva acquistata versando un mohar, cioè “una dote”, il concetto trapassa dall’amore violato a quello del possesso alienato. B.Renaud, in uno studio dal titolo emblematico Je suis un Dieu jaloux, ricorda che “questo tema ripetutamente ribadito nella polemica contro gli idoli non implica solo la dimensione nuziale ma soprattutto quella del possesso che Jhwh rivendica nei confronti di Israele, sua ‘proprietà’, che non tollera che gli venga alienata… Positivamente la gelosia traduce la sicurezza totale del fedele” 10 nei confronti del suo Signore.

Infatti, proprio in apertura alla grande teofania del Sinai, Dio proclama Israele sua “proprietà fra tutti i popoli” (Es 19, 5); in ebraico è usato il vocabolo segullah che indica il gregge di proprietà diretta del pastore e non a lui affidato da un altro in gestione. Giustamente Girolamo nella Vulgata traduce peculium, rimandando a pecus, “gregge”. L’idolo sottrae questo tesoro a Dio e ne suscita l’ira focosa, cioè la gelosia ardente: “Lo hanno fatto ingelosire attraverso dèi stranieri… Mi resero geloso con ciò che non è Dio,/ mi irritarono con idoli vani… I loro idoli lo resero geloso/ e Dio, all’udire, ne fu irritato…” (Dt 32, 16.21 e Sal 78, 58). Vediamo, così, emergere - in connessione con la gelosia - l’altra passione di Dio, lo sdegno, l’ira, che in ebraico è spesso formulata con un vocabolo onomatopeico ’af che rimanda alle narici e allo sbuffare: “Signore, Dio degli eserciti,/ fino a quando sbufferai di sdegno/ contro la supplica del tuo popolo?” (Sal 80, 5; cf. 74, 1 e 79, 5). Per questo il motivo è spesso accompagnato dalle immagini di una tempesta con fulmini e vento: “Ecco il nome del Signore avanzare da lontano:/ la sua ira è bruciante e terribile il suo avvampare./ Le sue labbra spumano sdegno,/ fuoco divorante è la sua lingua./ Il suo soffio è come un torrente straripante/ che inonda fino al collo/ …/ Il Signore farà risuonare la sua voce maestosa/ e mostrerà come colpisce il suo braccio con ira ardente,/ in mezzo a fulmini divoranti,/ nembi, tempesta e grandine furiosa” (Is 30, 27-28.30). La metafora dell’“accendersi dell’ira” divina è frequente (Nm 12, 9 e 2 Sam 24, 1).

Non di rado si ricorre a un altro simbolo suggestivo, quello del calice dell’ira: “Sì, nella mano del Signore è una coppa/ ricolma di vino miscelato e drogato:/ egli ne versa/ e come lo dovranno sorbire sino alla feccia,/ come ne berranno tutti gli empi della terra!” (Sal 75, 9). La coppa dello sdegno divino è colma di vino drogato dal potere ipnotico, genera nausee e incubi, fa barcollare e crollare al suolo, stordisce e acceca. E’ una coppa che viene versata sulle labbra di tutti gli empi, il cui contenuto dev’essere bevuto fino in fondo perché il giudizio divino è implacabile, efficace e totale. Anche il profeta Geremia riprende la stessa immagine, applicandola alle potenze della terra: “Prendi dalla mia mano questa coppa di vino della mia ira e falla bere a tutte le nazioni perché, bevendola, ne restino ubriache e impazziscano dinanzi alla spada che io invierò contro di loro” (Ger 25, 15-16). La collera divina è, quindi, segno del giudizio nei confronti del male, dell’oppressione, dell’ingiustizia. A questa passione del Dio d’Israele se ne associa un’altra ugualmente veemente, e ad essa intimamente collegata o, se si vuole, derivata: la vendetta.

Il Salmo 94 si apre con un grido: “Dio della vendetta, Jhwh,/  Dio della vendetta, rifulgi!”, un grido che scandalizza molti traduttori che preferiscono attenuarlo in “Dio che fai giustizia, Jhwh, Dio che fai giustizia”. Ma Geremia non ammette scampo: “Quel giorno per il Signore degli eserciti/ è un giorno di vendetta per vendicarsi dei suoi nemici./ La sua spada divorerà, si sazierà e si ubriacherà del loro sangue” (Ger 46, 10). Il canto della spada vendicatrice di Dio si fa frenetico in Ezechiele: “Spada, spada aguzza e affilata,/ aguzza per scannare, affilata per lampeggiare!/ L’ha fatta affilare perché la si impugni,/ l’ha aguzzata e affilata per darla in mano al massacratore!/ .../ Si raddoppi, si triplichi la spada,/ la spada dei massacri,/ la grande spada del massacro…!” (Ez 21, 14-16.19). Un canto che si fa truculento anche in Isaia: “Nel cielo si è ubriacata la spada del Signore/ …/ La spada del Signore gocciola di sangue,/ è imbrattata di grasso…/ …/ La terra si imbeve di sangue,/ la polvere s’impregna di grasso:/ sì, è il giorno della vendetta del Signore!” (Is 34, 5-8). In realtà, al di là delle immagini esasperate, tipiche dello stile semitico, questo affidare a Dio la vendetta è già di sua natura un correttivo al libero dispiegarsi della vendetta umana.

Sta di fatto che, come per l’herem, l’antropomorfismo della gelosia o dell’ira vendicativa, oltre a marcare la “personalità” (nel senso di “essere persona”) del Dio biblico, contro ogni concezione meramente “numinosa” o fatalistica, ne esalta la qualità morale tant’è vero che nella Bibbia l’esistenza e il trionfo del male sollevano subito una domanda intensa di teodicea. Si pensi all’intero impianto ideale del libro di Giobbe o all’interrogazione di Geremia: “Tu sei troppo giusto, Signore, perché io possa discutere con te. Ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia: perché gli affari degli empi prosperano?” (12,1; cf. Sal73 e Gb 21). In questa luce acquista un significato particolare la categoria giudiziale del jôm-Jhwh, “giorno del Signore”, la cui prima attestazione è reperibile in Am 5, 18-20 e che è connotato in chiave bellica e vendicativa11. La finalità, comunque, è sempre quella del ristabilimento della giustizia violata, come accade in molti testi teofanici (Gdc 5, 4-5; Sal 46, 7; 68, 8-10; Dt 33, 2-3; Mi 1, 3-4; Am 1, 2; Is 63, 19)12.

A questo riguardo merita un cenno un titolo divino che nell’Antico Testamento ha un particolare rilievo e, secondo alcuni studiosi, sembra essere il titolo ufficiale arcaico del Dio di Sion (vedi Sal 24, 8-10): Jhwh seba’ôt, “Signore degli eserciti”. Esso risuona ben 279 volte nella Bibbia, ma stranamente è assente nell’intero Pentateuco, in Giosuè e nei Giudici, cioè nei libri che celebrano più spesso la “guerra santa” dell’Israele premonarchico. L’arca, che era il palladio delle tribù ebraiche in lotta per la conquista della terra, è chiamata solo “l’arca dell’alleanza di Jhwh” (1 Sam 4, 3.5) o l’“arca di Dio” (1 Sam 4, 17). Nel rituale delle “processioni” dell’arca, registrato in Nm 10, 35-36, il titolo è ugualmente assente: “Quando l’arca partiva, Mosè diceva: Sorgi, Jhwh, e siano dispersi i tuoi nemici e fuggano da te coloro che ti odiano. Quando si posava, diceva: Torna, Jhwh, alle miriadi di migliaia di Israele”. Il titolo “Jhwh degli eserciti” appare agli albori della monarchia nell’apostrofe del giovane Davide a Golia: alle armi poderose dell’avversario egli oppone il nome di battaglia di Dio (1 Sam 17, 45). Appare perciò in una saga eroica nella quale il problema della “guerra santa” è ormai trasformato in un tema letterario e al centro domina la figura dell’eroe di Dio. L’espressione fa il suo ingresso trionfale successivamente, con la traslazione dell’arca a Sion ( 2 Sam 6, 2.18; 7, 2.8.26.27; cf. anche 1 Sam 1, 11; 4, 4; 15, 2), che per alcuni studiosi sarebbe un’eziologia per spiegare un rituale processionale dell’arca che si celebrava nel tempio di Gerusalemme.

Jhwh seba’ôt si ripresenta ampiamente nei profeti, con la vistosa eccezione di Ezechiele (54 volte in Isaia, 77 in Geremia, 44 in Zaccaria, nei cc. 1-8 soltanto; 6 volte nel Secondo Isaia), e nei Salmi (46, 8.12; 48, 9; 59, 6; 69, 7; 80, 5.8.15.20; 84, 2.4.9.13; 89, 9). Curiosamente, però, in questa fase storica, Jhwh non è più in modo marcato un Dio guerriero. Isaia, che introduce il titolo in maniera sistematica, lo fa balenare forse sullo sfondo delle invasioni assire, ma anche e soprattutto indipendentemente da esse. Il titolo, perciò, ha subíto un’evoluzione che possiamo così sintetizzare. Alle origini il suo valore era innanzitutto cosmologico e incarnava la rielaborazione del tema del Chaoskampfmotiv, cioè della grandiosa lotta cosmica della creazione. Le stelle, venerate come divinità nel mondo orientale, vengono da Israele ridotte al rango di creature al servizio di Dio, costituendo  così il suo “esercito”, assieme a tutte le forze naturali e preternaturali e agli angeli (Sal 29; 103; 104; 148). In epoca monarchica, il titolo acquista una collocazione più storica: quando il Signore esce in difesa del suo popolo per attuare il suo piano di salvezza, indossa l’armatura delle energie cosmiche. Il vincitore della natura e del caos è anche il Dio dell’alleanza, che libera il popolo da lui amato attraverso la sua sconfinata grandezza. Infine, l’uso liturgico (Sal 24, 10) riporta il titolo a una dimensione più generica, identificandolo in pratica col titolo teologico del tempio, il “Dio della gloria”, senza per questo elidere totalmente le venature cosmiche e belliche: Sion, creata fin dall’eternità (Sal48, 1), è il punto terminale della creazione intera, il suo apice (Sal 78, 68; 132, 13-14); ma Sion è anche il luogo in cui Jhwh entra come trionfatore sul nulla e sul negativo (Sal 68, 19). In ultima analisi, il titolo è molto meno marziale di quanto appaia a prima vista e la resa “Dio dell’universo”, adottata da certe versioni e dalla liturgia cattolica attuale, è più vicina al senso originario di quanto s’immagini.

5. Porgere l’altra guancia o la spada?

Il tema della “guerra santa”, come è noto, scompare nel Nuovo Testamento. Certo, nell’Apocalisse - che adotta moduli letterari simbolici tipici della letteratura apocalittica - non manca il ricorso a immagini belliche per rappresentare la lotta tra il bene e il male, tra la Babilonia imperiale e la Gerusalemme celeste, tra la Bestia e i giusti, tra la grande Prostituta e la Sposa (si veda, ad esempio, Ap 19, 1-21 o anche 17, 12-14). Lo stesso Cristo nel cosiddetto “discorso escatologico” fa un cenno a queste guerre terminali dai connotati cosmici (Mc 13, 7-8). Non manca, però, negli scritti neotestamentari la presenza della realtà marziale, considerato l’aspetto storico anche della rivelazione cristiana. Davanti al Battista si presentano alcuni soldati ai quali il Precursore semplicemente raccomanda di “non maltrattare e di non estorcere niente a nessuno, accontentandosi delle loro paghe” (Lc3, 14). Anzi, un centurione è elevato da Gesù a modello per la sua fede (Lc 7, 9); un altro centurione romano professerà ai piedi della croce la fede nella divinità di Cristo (Mc 15, 39) e il centurione Cornelio sarà il primo pagano romano a entrare ufficialmente nella neonata comunità cristiana (At 10).

Gesù in una sua mini-parabola introduce il tema della strategia militare: “Quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila nemici chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda un ambasceria per la pace” (Lc 14, 31-32). Paolo, che evoca nella lettera a Filemone un tale Archippo, suo “compagno d’armi” (v.2),  ricorre spesso alla simbolica marziale per rappresentare il ministero pastorale (Fil 2, 25; 1 Cor 9, 7) ma anche la stessa vita del credente (2 Tim 2, 2-3), introducendo l’immagine dell’armatura per raffigurare l’attrezzatura di virtù necessarie per testimoniare il bene e resistere al male (1 Ts 5, 8-9; Ef6, 10-17; Rm 13, 12).

Certo è che la prospettiva generale cristiana è ormai protesa in tutt’altro senso, oltre non solo la “guerra santa”, ma oltre la guerra tout court e la violenza. Prima ancora che invitasse il suo discepolo a rimettere la spada nel fodero, nella sera del suo arresto al Getsemani - “perché tutti quelli che mettono mano alla spada di spada periranno” (Mt 26, 51-52; in Gv 18, 11 quel discepolo è Pietro) - Gesù aveva pronunziato parole lapidarie nel suo Discorso della Montagna: “Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello; e se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne due con lui… Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori!” (Mt 5, 38-44).

Ora, nello spirito di tutto quel discorso (Mt 5-7) - si pensi solo alla splendida ed emozionante pagina di apertura, le Beatitudini - Gesù non vuole proporre né una legislazione ecclesiale o sociale né codificare una regola concreta. Egli delinea un atteggiamento radicale, una vera e propria opzione della coscienza; la sua è una spina messa nel fianco del buonsenso, dell’ovvio, del luogo comune così da mostrare una più alta potenzialità di vita, una ben diversa società, una meta, possibile eppur desueta, aperta all’uomo. In questa luce si può parlare di utopia ma nel senso più alto del termine e Gesù incarna in modo forse supremo la missione genuina delle religioni. Esse non devono ridursi a gestire l’esistente, come deve fare uno stato, né ridursi al piccolo cabotaggio ma far tendere l’umanità verso un Oltre e un Altro.

A questo punto naturalmente si pone una questione storico-teologica complessa e delicata che travalica il perimetro ristretto entro cui ci siamo voluti rinchiudere, l’ambito cioè dell’esegesi  e dell’ermeneutica biblica in senso stretto. E’ noto, infatti, che nella tradizione cristiana successiva, a partire da s. Agostino, si configurerà la distinzione tra guerra ingiusta e giusta, introducendo in tal modo la legittimità di una certa tipologia bellica, sia pure secondo criteri e limiti ben definiti, come quelli elencati da s. Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae (II-II, q.40): la legittima autorità del principe, la giusta causa per il conflitto e la retta intenzione tesa al ristabilimento della pace. A questi criteri il teologo Francisco de Vitoria (1483-1546) aggiungerà quello della “proporzionalità”, in pratica riducendo la legittimità della guerra alla legittima difesa13.

Noi vorremmo in conclusione - senza troppo derogare dal nostro precedente approccio ermeneutico - riservare un cenno proprio a questo aspetto. Fermo restando che il messaggio radicale ed essenziale cristiano è fondato sull’amore, sulla non-violenza, sul perdono e sulla pace (il magistero di Giovanni Paolo II ne è una testimonianza netta e nitida), si deve però riconoscere che l’incarnazione storica di questo messaggio è stata progressiva, talora limitata e imperfetta. La storicità col suo peso non può, infatti, essere del tutto elisa. Già Paolo evocava la “spada” dell’autorità politica, considerandone legittimo l’uso nell’ambito della giustizia fiscale (Rm 13, 1-7). Ecco, allora, la costante necessità per i cristiani di non perdere di vista l’ideale evangelico, riducendosi a un partito o a un movimento di opinione, ma anche di non astrarsi dalla realtà racchiudendosi nel bozzolo della tensione apocalittica o mistica. E’ un difficile equilibrio che comporta, da un lato, la continua affermazione dei grandi valori, della moralità alta, di ideali anche supremi, e d’altro lato, la necessità della loro “incarnazione” e quindi del confronto col groviglio delle vicende sociali, politiche, economiche. Riguardo a questo secondo versante vorremmo evocare un tema che ha avuto un revival di discussione proprio in seguito ai recenti eventi del terrorismo internazionale.

Intendiamo riferirci alla questione della legittima difesa che di per sé collide con la logica evangelica del “porgere l’altra guancia”. Tuttavia essa fa parte della dottrina tradizionale ecclesiale, ribadita anche dal recente (1992) Catechismo della Chiesa Cattolicache ad essa riserva un intero capitoletto (nn. 2263-2267; inoltre, nel 2243 si affronta anche la resistenza all’oppressione del potere politico e nei nn. 2302-2317 si ha una forte apologia della pace, osservando però che “si devono considerare con rigore le strette condizioni che giustificano una legittima difesa con la forza militare”). E’ in questo capitolo che ritroviamo un passo famoso della Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino (II-II, q. 64, 7): “Se per difendersi si esercita una violenza più grande del necessario, questo sarà illecito. Ma se si respinge la violenza in modo misurato, è lecito… L’azione di difendersi può causare un duplice effetto: l’uno è la conservazione della propria vita, l’altro la morte dell’aggressore. Il primo soltanto è voluto; il secondo non lo è”. Al di là della difficoltà dell’applicazione equilibrata e corretta della regola tomistica (e classica) dell’autodifesa, come comporla col principio evangelico della non-violenza assoluta? La risposta è proprio, come si diceva, nella struttura della fede cristiana legata all’Incarnazione e quindi alla storia. I princìpi devono  essere “incarnati” nella concretezza dei casi che spesso sono molto più intricati e complessi (si pensi, tanto per fare un altro esempio in un diverso ambito, all’appello alla povertà, al distacco, alla condivisione dei beni all’interno di una società economica com’è l’attuale). Si devono, perciò, trovare vie meno dannose per il principio ma anche compatibili con determinati contesti speciali e particolari.

Così, si può ammettere una reazione di difesa nel caso in cui essa sia l’unica strada possibile per impedire l’aggressione, l’ingiustizia, l’oppressione: l’atto violento è finalizzato non a punire l’aggressore ma a farlo desistere e a bloccarlo. In situazioni eccezionali è, dunque, da considerarsi legittimo il ricorso alla forza purché esso sia per la difesa dei diritti dei deboli, e non per incrementare inimicizie e odio quanto piuttosto per estinguerli. Riconosciuta la legittimità di questa tutela di sé e dei valori della persona (vita, libertà) - legittimità fondata anche sul principio dell’“amare il prossimo come se stessi” (esiste, quindi, un lecito “amare se stessi”) - è, però, necessario per il cristiano ribadire con forza il principio dell’“amare il nemico” e, quindi, della non violenza. E’ ciò che anche Paolo faceva scrivendo ai Romani: “Vinci il male con il bene!” (12, 21). E’ ciò che il Magistero ecclesiale, in modo speciale a partire dal secolo scorso, ha ripetutamente ribadito14. Anche se apparentemente “utopica” e, proprio per questo, tesa verso un superamento costante delle situazioni concrete, la non-violenza è, in realtà molto più efficace di quanto politici e militari vogliono farci credere:  basti solo pensare a Gandhi o a Martin L. King. In un mondo che spesso sbrigativamente si orienta verso soluzioni di morte, di violenza, di prevaricazione, il seme e il lievito di questo principio cristiano devono essere ancora deposti nel terreno della storia. E la Chiesa, pur coinvolta nell’esercizio della giustizia che dovrebbe reggere la città di Cesare, non deve mai dimenticare di tendere verso la legge ultima del Regno di Dio.

Note

1  R. Schwager, Brauchen wir einen Sündenbock? Gewalt und Erlösung in den biblischen Schriften, Kösel, München, 1978, pp. 58-70.

2  J. Wellhausen, Israelitische und jüdische Geschichte, Reiner, Berlin 1894, p. 26.  “Jhwh” è il tetragramma sacro con cui la Bibbia indica il nome sacro del Dio di Israele (la trascrizione vocalizzata “Jahweh” è solo ipotetica).

3  A. Vögtle, La pace, Morcelliana, Brescia, 1984, p.17.

4  Quasi tutte le opere di R. Girard, antropologo ma anche critico letterario nato ad Avignone nel 1923, ruotano attorno alla tesi formulata nel 1972 col saggio La violence et le sacré (tr. it. Adelphi, Milano, 1980). Essa fu poi elaborata ulteriormente con l’introduzione del tema del “capro espiatorio”, strumento supremo dei “meccanismi della riconciliazione vittimale”, a partire dall’opera del 1978 Des choses cachées depuis la fondation du monde (tr. it., Adelphi, Milano, 1983) e da Le bouc émissaire del 1982 (tr. it., Adelphi, Milano, 1987). Per  N. Lohfink rimandiamo soprattutto al suo significativo Il Dio della Bibbia e della violenza, Morcelliana, Brescia, 1985, che tra l’altro offre una panoramica delle varie tesi interpretative riguardo alla violenza nell’Antico Testamento. Per R. Schwager rimandiamo all’opera citata nella nota 1.

5  La bibliografia sul tema è enorme. Oltre agli scritti di N. Lohfink (prezioso anche per la bibliografia) e di R. Schwager, a cui già si è accennato, rimanderemo solo ad alcuni titoli di indole generale e di taglio sintetico: Autori Vari, La violenza, in “Parola Spirito e Vita” n. 37 (1998), pp. 3-211; G. Barbaglio, Dio violento? Lettura delle Scritture ebraiche e cristiane, Cittadella, Assisi, 1991; C. Brekelmans, herem, scomunica, in E. Jenni - C. Westermann, Dizionario Teologico dell’Antico Testamento, vol. I, Marietti, Torino, 1978, coll. 551-554; G. Galbiati, La guerra santa israelitica, Lanterna, Genova, 1986; M. Hengel - N. Negretti, Violenza e non violenza, Marietti, Casale Monferrato, 1977; G. Hens Piazza, Violence in Joshua and Judges, in “The Bible Today” 39 (2001), 196-203; T.R. Hobbs, A time of war. A study of warfare in the Old Testament, Glazier, Wilmington, 1989; G.H. Jones, The concept of holy war, in R.E. Clemens ed., The world of ancient Israel. Sociological, anthropological and political perspectives, University Press, Cambridge-New York-New Rodelle-Melbourne-Sydney, 1989, pp. 299-321; H. Junker, Der alttestamentliche Bann gegen heidnische Völker als moraltheologisches und offenbarungsgeschichtliches Problem, in “Trierer Theologische Zeitschrift” 56 (1947), pp. 74-89; T. Longman III - D.G. Reid, God is warrior, Paternoster, Carlisle, 1995; D. Merli, Le “guerre di sterminio” nell’antichità orientale e biblica, in “Bibbia e Oriente” 9 (1967), pp. 53-67; S. Niditch, War in the Hebrew Bible. A study in the ethics of violence, Oxford University Press, New York-Oxford, 1993; E. Otto, Krieg und Frieden in der Hebräischen Bibel und im Alten Orient, Kohlhammer, Stuttgart, 1999; E. Peretto, La sfida aperta. Le strade della violenza e della non violenza, dalla Bibbia a Lattanzio, Borla, Roma, 1993; A. Ruffing, Jahwekrieg als Weltmetapher, Katholisches Bibelwerk, Stuttgart, 1992; Sa-Moon Kang, Divine war in the Old Testament and in the ancient Near East, Walter de Gruyter, Berlin-New York, 1989; A van der Lingen, Les guerres de Yahvé. L’implication de YHWH dans les guerres d’Israël selon les livres historiques de l’Ancient Testament, Cerf, Paris, 1990; A. Vögtle, La pace, Morcelliana, Brescia, 1984; G. von Rad, Der heilige Krieg im alten Israel, Zwingli-Verlag, Zürich, 1951; J. G. Williams, The Bible, violence and the sacred. Liberation from the myth of sanctioned violence, Harper, San Francisco, 1991.

6  Vedi, ad esempio, i saggi di M. Bouttier, La guerre sainte, in “Etudes Théologiques et Religieuses” 56 (1981), pp. 1-125; C. Colpe, Zur Bezeichnung und Bezeugung des “heiligen Krieges”, in “Berliner Theologische Zeitschrift” 1 (1984), pp. 45-52; 198-214; G.H. Jones, “Holy War” or “Jahweh War”, in “Vetus Testamentum” 25 (1975), pp. 642-658. Nel cerchio geograficamente più ristretto attorno a Israele disponiamo di un’unica attestazione certa del herem, quella che Mesha, re di Moab, dichiarò nei confronti della città israelitica di Nebo. Stando alla stele di questo sovrano locale del IX sec. a.C., vennero uccise 7000 persone e gli arredi del culto di Jhwh furono trasferiti nel santuario del dio moabita Kamosh (cf. H. Donner-W.Röllig, Kanaanäische und aramäische Inschriften, Harrassowitz, Wiesbaden, 1962-1964, n. 181, 14-18).

7  N. Lohfink, La “guerra santa” e la “scomunica” nella Bibbia, in “Parole Spirito e Vita” n. 37 (1998), p. 93.

8  J.L. McKenzie, Dizionario Biblico, Cittadella, Assisi, 1973, p. 464.

9  P. Van Sommers, La gelosia, Laterza, Bari, 1991, p. 6.

10  B. Renaud, Je suis un Dieu jaloux, Cerf, Paris, 1963, p. 133.

11 Vedi, ad esempio, H. Spieckermann, “Dies irae”: Der alttestamentliche Befund und seine Vorgeschichte, in “Vetus Testamentum” 39 (1989), pp. 194-208.

12  E’ da notare che nel “giorno del Signore” e nelle teofanie giudiziali si ha la “demitizzazione” (o la storicizzazione) del famoso Chaoskampfmotiv che nella mitologia dell’antico Vicino Oriente celebrava la vittoria della divinità creatrice sulle potenze avverse del caos e del nulla, spesso in chiave di teomachia. Per una puntualizzazione della questione rimandiamo a Th. Podella, Der “Chaoskampfmotivmythos” im Alten Testament. Eine Problemanzeige, in M. Dietrich-O. Loretz edd., Mesopotamia-Ugaritica-Biblica (Fs. K. Bergerhof), Butzon & Bercker, Kevelaer, 1993, pp. 283-330.

13  Il padre del diritto internazionale, il giurista protestante Ugo Grozio, nel suo De iure belli ac pacis (1625) introdurrà il concetto di “guerra solenne”, che si fonde sia nel diritto naturale sia in quello positivo: essa dovrà essere dichiarata “solennemente” e limitare l’uso della violenza senza mai superare i dettami della retta natura e secondo una serie di vari “temperamenta”. Cf. L. Bonanate, Guerra e pace, Franco Angeli, Milano, 1994.

14  Per l’insegnamento del magistero ecclesiale sul tema della pace, vedi G. Mari, Magistero di pace, in L. Lorenzetti ed., Dizionario di teologia della Pace, Dehoniane, Bologna, 1997, pp. 572-578 (con bibliografia). Questo Dizionario è significativo per tutti i temi affrontati nel nostro saggio. Sul raccordo tra Bibbia e istanze contemporanee di pace, si veda anche N. Lohfink, Il Dio violento dell’Antico Testamento e la ricerca di una società non violenta, in “La Civiltà Cattolica” 135 (1984), 2, pp. 30-48.

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Ravasi,Gianfranco, LA BIBBIA E LE GUERRE DI DIO, en García, José Juan (director): Enciclopedia de Bioética.

Última modificación: Monday, 6 de July de 2020, 12:52