IL MEDICO ED IL CONCETTO DI SALUTE IERI E OGGI

INDICE

 

I- Introduzione

 

II- La figura di Chirone nella mitologia greca

 

III- La figura di Chirone nella mitologia greca

 

IV- Il cristianesimo e la figura di Cristo come novello Chirone

 

V- Salute del corpo e salvezza dell’anima nell’arte del Rinascimento italiano: il caso di Tintoretto

 

VI- Dall’ideale olistico alla specializzazione e alla settorializzazione

 

VII- I limiti del riduzionismo medico e l’esigenza di un nuovo olismo

 

VIII- Riferimenti e Note

 

 

I- Introduzione

Il medico contemporaneo ed il suo antenato moderno e premoderno hanno qualcosa in comune, oppure risultano del tutto estranei l’uno all’altro? Le conquiste della scienza contemporanea hanno sempre e comunque condotto ad una medicina migliore, oppure  con il progresso si è perso qualcosa di essenziale, che costituiva una parte importante del bagaglio medico?

Per rispondere, almeno in parte, a queste domande, proveremo a ricostruire, seppur a grandi linee, l’immagine classica del medico, per poterla poi accostare all’attuale immaginario che ne possediamo.

 

II- La figura di Chirone nella mitologia greca

La cultura greca aveva individuato nel personaggio mitologico del centauro Chirone (Apollodoro in Scarpi  1996, 128-130) la figura paradigmatica del medico. L’importanza di Chirone nella cultura greca è testimoniata dal fatto che la mitologia gli attribuiva persino il ruolo di maestro di Asclepio, ovvero dello stesso dio greco della medicina. Chirone era pertanto considerato il capostipite e l’iniziatore della scienza medica.

Chirone era figlio di Filiria, nome che richiama il tiglio, pianta dai poteri calmanti. Egli era, di conseguenza, un grande esperto di erboristeria, così come riconosce lo storico tedesco Johann Nikolaus von Hontheim (1701-1790), che, in suo onore, aveva creato, nel territorio di Collepardo, un “Orto del Centauro”.

Suo padre era il Titano Crono che, per sedurre Filiria, si era trasformato in cavallo e questo spiega perché Chirone avesse l’aspetto di un centauro, che è per metà uomo e per metà cavallo. Tuttavia Chirone, per la sua grande bontà d’animo e per la sua saggezza, si distingueva da altri centauri quali i satiri, che erano ignoranti e violenti. Chirone, inoltre,  aveva ricevuto dal fratellastro Zeus il dono dell’immortalità.

Tuttavia, l’aspetto più rilevante della figura di Chirone è costituito dal fatto che egli è una sorta di “guaritore ferito”. Il mito racconta infatti che Chirone si era infatti trovato involontariamente coinvolto in un conflitto tra il suo amico Eracle ed alcuni centauri, che avevano trovato rifugio nella sua grotta e, nel corso di questa contesa, era stato incidentalmente colpito da una freccia avvelenata scoccata dall’arco di Eracle. Il veleno presente nella freccia aveva reso la sua ferita inguaribile, senza che Chirone ne potesse morire, avendo ricevuto il dono dell’immortalità. Chirone, di conseguenza, cercava rimedio al suo dolore cronico nell’arte medica, che egli esercita su se stesso prima ancora di esercitarla sugli altri. Egli era dunque vittima ed al contempo guaritore e questa condizione gli permetteva di sviluppare un senso di grande empatia nei confronti dei sofferenti e, al tempo stesso, di sviluppare ancor meglio le sue capacità terapeutiche.

L’insegnamento principale che deriva al medico greco dal mito di Chirone è questo: l’arte medica non si può mai ridurre ad un semplice intervento tecnico su di un corpo-oggetto del tutto despiritualizzato. Il medico non è un semplice meccanico che ripara un meccanismo guasto, ma deve essere in grado di entrare in sintonia con la sofferenza, con il modo del tutto particolare ed individuale con cui una determinata malattia è vissuta. In altri termini, la medicina non si deve limitare alla cura del corpo, ma deve occuparsi anche dell’anima.

Del resto, questo insegnamento è presente anche nel Corpus Ippocraticum, il più importante testo medico della grecità. Ippocrate, infatti, nello spiegare la genesi delle malattie croniche, dice che spesso esse si originano da eccessi di vario tipo, a cui il paziente si è sottoposto, quali, ad esempio, eccessi alimentari, sessuali e così via. Per questo la semplice cura del corpo non è mai sufficiente, ma occorre sempre che essa si accompagni alla cura dell’anima. Il medico deve infatti educare il paziente alla regola aurea del “nulla di troppo”, che costituisce la base dell’etica classica greca.

Questa parte educativa e preventiva della medicina, che passa necessariamente attraverso l’educazione e la cura dell’anima, trova anch’essa spazio nel mito, attraverso la figura di Igea che, assieme a Panacea, faceva parte dei figli di Asclepio, il dio greco della medicina. Se Panacea rappresentava la personificazione della guarigione attraverso i farmaci ricavati dalle piante, Igea, al contrario, viene invocata per prevenire le malattie.

 

III- Il mito di Cura nella mitologia romana

L’idea che la cura ed in particolare la cura medica debba aver per oggetto l’insieme di anima e corpo viene ribadita dalla tradizione culturale romana e latina. Particolarmente significativo, da questo punto di vista, è il mito di Cura, tramandato da Iginio nelle sue Fabulae (Iginio in Guidorizzi 2000, 136) ed in seguito reso noto da Martin Heidegger in Essere e Tempo (Heidegger 1976, 246-247).

Il mito descrive Cura intenta nell’atto di modellare, quasi inconsapevolmente, la figura di un uomo, utilizzando del fango. Terminata  l’opera apparve Giove, a cui Cura chiese di infondere lo spirito vitale nel suo manufatto. Ma in seguito nacque tra Giove, Cura e Terra una diatriba su chi avesse il diritto di dare il nome a questa creatura, alla cui realizzazione tutti e tre avevano contribuito.  Per risolvere la controversia fu chiamato come giudice Saturno, che si espresse in questo modo: a Giove, che aveva infuso lo spirito, sarebbe toccata l’anima di quella nuova creatura al momento della sua morte; alla Terra, invece, che aveva fornito la materia, sarebbe toccato, dopo la morte, il corpo; infine, la Cura lo avrebbe posseduto durante tutta la sua vita, perché essa era stata la prima a plasmarlo.

Ciò che il mito suggerisce è che la vita umana è sempre in stretta relazione con le grandi realtà universali: il cielo, rappresentato da Giove; la terra, rappresentata da Tellus ed il tempo, rappresentato da Saturno.  Ma ciò che maggiormente caratterizza l’uomo è l’unità di questi elementi, rappresentata dalla forza integratrice di Cura. Quando infatti viene meno questa forza integratrice compare la malattia, che è, fondamentalmente, una forma di disgregazione. Quell’armonia tra mente e corpo, che percepiamo nella condizione di salute, viene meno nell’esperienza del dolore e della malattia, quando il corpo, all’improvviso, si fa estraneo e, da docile strumento espressivo dello spirito, diventa, tutto ad un tratto,  un ostacolo.  La malattia induce la persona a concentrarsi e a ripiegarsi sul suo proprio corpo malato, che è divenuto indisponibile, opaco, pesante.  Un noto giornalista e scrittore come Tiziano Terzani, parlando della sua condizione di malattia, descrive molto bene questa esperienza di totale assorbimento dello spirito nella materia, a cui la malattia ci obbliga:

 

Corpo. Corpo. Corpo. È curioso come normalmente, quando si è sani, quasi non ci si rende conto di averne uno e come si danno per scontate le sue funzioni. Basta ammalarsi, però, e il corpo diventa il centro di tutta la nostra attenzione; il semplice respirare e “l’andar di corpo”, come dicevano i vecchi, diventano fatti essenziali che determinano gioia o dolore, che fanno insorgere sollievo o angoscia. Secondo le istruzioni che mi erano state date, seguivo ogni funzione di quel mio corpo e ne correggevo via via le irregolarità, ma così facendo mi rendevo conto ogni giorno di più di quanto io dipendevo da lui, di come il suo umore determinava il mio e di quanto grande fosse lo sforzo che io (io-mente, io-coscienza, io-quell’altro, insomma) dovevo fare per non diventare suo schiavo. (Terzani 2004, 34).

Mai, prima di allora, mi ero tanto sentito fatto di materia; mai avevo dovuto guardare così da vicino il mio corpo e soprattutto imparare a mantenerne il controllo, a esserne padrone, a non farmi troppo dominare dalle sue richieste, i suoi dolori, le sue palpitazioni e i suoi urti di vomito. (Terzani 2004, 13).

La malattia rappresenta dunque la rottura dell’equilibro tra corpo e psiche, perché nella malattia si assiste ad una sorta di cannibalizzazione della psiche da parte del corpo. La Cura, pertanto, ha come scopo quello di superare questa disgregazione, consentendo all’uomo di aprirsi verso il cielo, pur rimanendo radicato nella terra. In questo consiste, infatti, la guarigione.

 

IV. Il cristianesimo e la figura di Cristo come novello Chirone

La figura del guaritore ferito, così ben esemplificata da Chirone nel mondo classico, viene ripresa nel cristianesimo attraverso la figura stessa di Cristo. Cristo, infatti, è un guaritore sofferente; è colui che guarisce prendendo sulle sue spalle la sofferenza del mondo. Esiste un Christus patiens ed, al tempo stesso, un Christus medicus. Cristo, come Chirone, conosce la sofferenza perché l’ha innanzitutto provata sulla sua pelle, tanto da identificarsi totalmente con ogni malato (“Ero malato e mi avete visitato”, Matteo 25,36).

I vangeli descrivono un grande numero di incontri tra Gesù e persone affette da malattie e menomazioni di vario tipo: zoppi, ciechi, sordomuti, paralitici, lebbrosi. Noti sono gli episodi della emorroissa, della suocera di Pietro colpita dalla febbre, oppure quello di Lazzaro. Nei vangeli il verbo greco therapeúein (curare) ricorre 36 volte, mentre il verbo iâsthai (guarire) ricorre 19 volte. Inoltre, in tutti gli episodi di guarigione l’attenzione non viene mai focalizzata sulle tecniche di guarigione, ma sull’incontro tra Gesù e la persona malata.

Ciò che accomuna Cristo e Chirone è l’empatia, la compassione nei confronti di chi soffre. Il verbo che viene più volte utilizzato per indicare l’atteggiamento compassionevole del Cristo e del Padre suo è “splagchnízein”, che potremmo tradurre con l’”essere mosso a viscerale compassione”. Nel vangelo di Marco troviamo infatti scritto:

 

Allora venne a lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi guarirmi!”. Mosso a compassione (corsivo mio), stese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, guarisci!” (Marco 1, 40-41)

 

Inoltre, tanto Cristo quanto Chirone, hanno in vista non solo la salute del corpo ma anche e soprattutto la salute dello spirito. Di fronte all’uomo paralizzato Gesù non vede solo un uomo malato nel corpo, ma una persona con dei bisogni spirituali, ai quali Gesù risponde annunciando il perdono dei peccati:

Si recarono da lui con un paralitico portato da quattro persone. Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dov’egli si trovava e, fatta un’apertura, calarono il lettuccio su cui giaceva il paralitico. Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: “Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati”.

Seduti là erano alcuni scribi che pensavano in cuor loro: “Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?”. Ma Gesù, avendo subito conosciuto nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: “Perché pensate così nei vostri cuori? Che cosa è più facile: dire al paralitico: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina?” (Matteo, 2, 2-9).

 

La novità introdotta dal cristianesimo, però, consiste nel fatto che le guarigioni di Gesù, oltre che curare corpo e anima,  sono anche segno della salvezza eterna. Forse è proprio questo duplice registro a stare alla base della felice ambiguità del termine latino “salus”, che significa al tempo stesso “salute” e “salvezza”.  I veneziani, infatti, sanno benissimo che la Madonna della Salute, a cui è dedicata una delle più note basiliche veneziane, è stata invocata, al tempo stesso, per la guarigione dalla peste e per la salvezza eterna.

La guarigione offerta da Gesù al corpo e allo spirito è un’anticipazione dell’evento pasquale. La fatica, la perdita di forza, che Gesù prova quando guarisce, come emerge chiaramente nel caso dell’emoroissa (vedi Marco, 5, 25-34), è infatti un’anticipazione della sua morte. Gesù, ancora una volta, guarisce e salva, attraverso la sua sofferenza e la sua morte.

 

V- Salute del corpo e salvezza dell’anima nell’arte del Rinascimento italiano: il caso di Tintoretto

In questo percorso storico che, necessariamente, non può avere un carattere completo ed organico, data la necessaria brevità del presente scritto, facciamo solo una breve sosta nel Rinascimento, per provare a far emergere, attraverso l’analisi della raffigurazione artistica, la concezione olistica della salute  che anche a quell’epoca prevaleva, in continuità con la cultura greca, romana e medievale.

Questa breve sosta ha come proprio epicentro la città di Venezia, perché è a Venezia che si è tenuto il convegno da cui si è poi originato questo breve scritto. E, tra i tanti magnifici monumenti della città di Venezia, quelli che hanno più a che fare con il nostro tema sono senza dubbio le Scuole, ovvero quelle antiche istituzioni di carattere associativo-corporativo che avevano il principale compito di aiutare i bisognosi e, più in particolare, i malati. Spesso le scuole assumevano anche l’iniziativa di costruire ospedali e, infatti, non è per un caso che il convegno che ha dato origine a questo scritto si sia tenuto nella più importante delle scuole veneziane, ovvero quella che ha potuto fregiarsi del nome dello stesso patrono della città: la Scuola Grande di San Marco. Così come non è affatto per un caso che questa scuola sia adiacente all’ospedale della città e sia ancor oggi di proprietà dell’Ulss 12 Veneziana, oltre che  sede di un Museo di storia della medicina e di una Biblioteca medico-storica.

Tuttavia la nostra attenzione non si concentrerà sulla Scuola Grande di San Mafco, ma su di un’altra scuola, la Scuola Grande di San Rocco. Il legame tra questa scuola ed il nostro tema della salute e della cura è dovuto ad una molteplicità di ragioni. Innanzitutto il santo a cui è dedicata la scuola viene dipinto dalla devozione popolare come un guaritore, nato con una croce vermiglia impressa sul petto, e capace di guarire miracolosamente molti appestati con il segno della croce. E proprio la croce, come via di salvezza corporale e spirituale, rappresenta il tema dominante degli straordinari dipinti decorati da Tintoretto all’interno della Scuola, dipinti che compongono un ciclo pittorico considerato da molti studiosi tra i più ricchi del Cinquecento e di tutti i tempi. Tintoretto, che era confratello della Scuola Grande di San Rocco, vi aveva infatti lavorato per un arco di tempo di quasi 25 anni.

La croce, dicevo, come via di salvezza corporale e spirituale, rappresenta il tema dominante del ciclo pittorico che, infatti, culmina con la gigantesca Crocifissione che ricopre l’intera parete di fronte all’entrata della Sala dell’Albergo. A questo telero si riconnette il telero principale del soffitto della Sala superiore, che raffigura l’episodio biblico del Serpente di bronzo, quale prefigurazione della crocifissione.

L’episodio del Serpente di bronzo è uno dei più drammatici dell’Esodo e narra di una sollevazione del popolo, ormai affaticato, nei confronti di Dio. Questa ribellione viene punita da Dio stesso, attraverso l’invio di serpenti velenosi che causano molti morti, finché il popolo, pentito, chiede perdono. È solo a questo punto che Dio, dopo aver udito le preghiere, dice a Mosé: “Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque, dopo essere stato morso, lo guarderà resterà in vita” (Numeri 21, 8).

La scena rappresentata da Tintoretto raffigura dunque un atto di guarigione, che risulta particolarmente adatto all’ambiente in cui viene collocata. Ma la cosa più interessante, come osserva Ester Brunet nel suo bel volume su La Bibbia secondo Tintoretto (Brunet 2012), è il richiamo tra l’episodio del Serpente e l’episodio della Crocifissione. Scrive infatti Brunet:

Il principale quadro della Sala dell’Albergo può dirsi in tutto e per tutto antítipo di quello della Sala superiore. Cristo è il nuovo serpente che, una volta esaltato sulla croce, vince il serpente tentatore dell’Eden. (Brunet 2012, 51-52)

Nel Vangelo di Giovanni Gesù, infatti, parla in questo modo di se stesso:

E come Mosé innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. (Gv 3, 14-15)

Il  serpente, infine, come nota Brunet, costituisce un chiaro riferimento alla medicina del tempo e ad uno dei suoi più noti rimedi:

 

Tintoretto dipinge il Serpente di bronzo tra il 1575 e il 1576, quando a Venezia raggiunge il suo apice una delle più terribili epidemie di peste mai viste in città. L’intensità con cui il pittore realizza questo episodio di guarigione si spiega alla luce della situazione storica del tempo: la peste rafforzava la necessità di una profonda riflessione sul mistero pasquale, vera e propria origine della salvezza. Peraltro il significato salvifico della tipologia del serpente di bronzo doveva essere per i veneziani immediatamente comprensibile, perché richiamava alla mente l’azione di un farmaco usatissimo durante i periodi di contagio, la cosiddetta teriaca, che funzionava secondo un principio omeopatico: per curare il veleno, e quindi anche il contagio, era prevalentemente composta da carne di serpente. L’associazione “serpente di bronzo – Cristo – teriaca” è attestata dalle fonti del tempo: come la carne di serpente guarisce dal morso dei serpenti, così il sacrificio della carne di Cristo-serpente, fattosi peccato per i peccatori (v. 2 Cor 5,21), restituisce loro la vita nel senso più pieno e profondo (Brunet 2012, 52-53).

 

Oltre al serpente di bronzo troviamo, nei teleri di Tintoretto, un altro importante elemento che richiama la salute dell’anima e, al tempo stesso, quella del corpo. Questo elemento è l’acqua, che rappresenta l’acqua del battesimo, fonte di purificazione spirituale e, d’altro canto, anche le cosiddette acque salutari, a quel tempo considerate efficaci contro la peste. L’elemento dell’acqua ritorna infatti in due tele, che rinviano una all’altra, come quelle relative al serpente di bronzo e alla crocifissione. Anche in questo caso una tela raffigura una scena tratta dall’Antico Testamento, ovvero l’episodio in cui Mosé fa scaturire l’acqua dalla roccia[1]; mentre l’altra descrive un episodio del Nuovo Testamento, ossia il battesimo di Cristo[2].

Ecco cosa scrive Brunet  riguardo ai poteri medicinali dell’acqua e all’analogia col serpente di bronzo:

Come per il Serpente di bronzo, la dimensione dell’attualità storica non va dimenticata per l’interpretazione del dipinto. Similmente al serpente-teriaca, anche l’acqua ha una forte valenza medicinale. Vanno ricordate a questo proposito le diverse leggende che si svilupparono attorno alle cosiddette “acque salutari”, che si ritenevano miracolose contro la peste, e che proprio negli anni della decorazione della Sala superiore, a causa del dilagare del contagio, divennero molto popolari. Possiamo facilmente immaginare quanto i visitatori si immedesimassero nei personaggi del dipinto, salvati dai fiotti d’acqua miracolosi quando già pensavano di essere condannati a morire di sete; di certo la mente correva, per analogia, all’esperienza, propria o di altri, di pellegrinaggi ai pozzi considerati salutari (come quello di S. Croce all’isola della Giudecca) allo scopo di attingervi acqua per proteggersi dal morbo mortale. (Brunet 2012, 77)

 

VI- Dall’ideale olistico alla specializzazione e alla settorializzazione

Da questi pochi riferimenti al passato emerge un’idea olistica della salute, secondo cui il corpo del paziente viene considerato nella sua integralità e sullo sfondo della sua dimensione psichica. Di conseguenza, anche la cura segue un approccio integrale od olistico. Oggi l’approccio della medicina ai pazienti è molto diverso dal passato. La medicina è diventata molto più efficace dell’antica medicina, che usava la carne di serpente e le acque salutari. Per diventare più efficace, però, ha dovuto delimitare sempre di più il suo oggetto. In primo luogo ha eliminato dal suo ambito tutto ciò che non poteva essere empiricamente sperimentato, verificato e misurato e, dunque, innanzitutto quella dimensione psichico-spirituale che stava al centro dell’antica medicina. La malattia è stata indagata attraverso una sempre più potente e sofisticata strumentazione tecnica, con ampio ricorso ad esami strumentali. Il corpo che veniva fatto oggetto di questa indagine era sempre più inteso come un dato biologico, un oggetto empirico, sottoposto alle leggi deterministiche della natura. In secondo luogo la nuova medicina ha proceduto ad una rigorosa divisione dell’oggetto empirico così delimitato. All’interno del corpo biologico l’attenzione veniva sempre più focalizzata su specifici organi, su singoli tessuti e cellule. I vari specialisti medici iniziavano a rispettare sempre di più la divisione analitica dei compiti. Nascevano gli ospedali, con al loro interno tutte le varie “divisioni” mediche.  Scompariva la vecchia figura del medico di famiglia, che si occupava pressoché di tutto e che faceva gran parte delle sue visite presso l’abitazione stessa del paziente. Questo passaggio, dalla visita domiciliare alla visita ambulatoriale od ospedaliera, costituisce un passaggio molto importante, perché contribuisce a decontestualizzare sempre di più il paziente, favorendo un approccio di tipo riduzionistico alla malattia. Il vecchio medico conosceva la famiglia del paziente, la sua storia, il suo contesto sociale. Il nuovo medico è certamente più veloce ed efficiente, perché in ospedale od in ambulatorio si possono visitare, nello stesso tempo, molti più pazienti di quanti se ne visitino a casa, ma è, inevitabilmente, più distante, sul piano umano, dai suo pazienti.

La nuova medicina ha sempre più intensificato il proprio livello di specializzazione e, dunque, il paziente, diversamente dal passato, non ha più a che fare con un solo medico, ma si trova sempre più spesso ad interagire con molti specialisti, ciascuno specializzato in qualche specifico organo, tessuto o funzione.

 

VII- I limiti del riduzionismo medico e l’esigenza di un nuovo olismo

L’obiettivo principale della medicina scientifica è sempre stato, sin dall’inizio, quello della guarigione dalla malattia. Questo risultato è stato brillantemente acquisito in un buon numero di casi. Si pensi, ad esempio, all’enorme successo ottenuto attraverso l’introduzione degli antibiotici, grazie ai quali innumerevoli malattie, che in passato causavano delle vere e proprie epidemie, risultano oggi definitivamente sconfitte.

Tuttavia il successo della medicina nei confronti della malattia risulta essere un successo solo parziale. Si potrebbe definire “una vittoria mutilata”, utilizzando una celebre espressione coniata dal poeta e soldato Gabriele D’Annunzio, a proposito della vittoria italiana nella prima guerra mondiale. Così come Fiume ed alcuni territori della Dalmazia erano rimasti fuori dalle conquiste italiane della prima guerra mondiale, allo stesso modo molte malattie sono rimaste fuori dalle grandi conquiste della medicina contemporanea. Queste malattie sono quelle che vengono definite “croniche”. Nel caso delle malattie croniche, infatti, la medicina non è capace di guarire, ma tutt’al più di prolungare la vita in condizione di malattia. Si può vivere più a lungo che in passato con malattie oncologiche, con l’AIDS, con una compromissione delle funzioni renali, con malattie respiratorie croniche, cardiovascolari, muscolo-scheletriche, neurodegenerative, genetiche, ecc., ecc. In tutti questi casi i pazienti non guariscono mai ed, anzi, talvolta le loro condizioni peggiorano progressivamente, anche se più lentamente di quanto accadeva in passato.

Il paradosso di fronte a cui siamo venuti a trovarci è che questa vittoria parziale della medicina è finita per trasformarsi, in qualche modo, in una sconfitta. Oggi, infatti, la malattia è più presente, perché la medicina allunga la vita in condizione di malattia. Inoltre, la medicina ha avuto certo il merito di allungare la vita, favorendo l’aumento della popolazione anziana, ma la popolazione anziana è anche quella che soffre maggiormente di varie patologie. Anche questo fenomeno, dunque, favorisce l’aumento complessivo della presenza della malattia.

In passato, quando la medicina non era così progredita come lo è oggi, la quantità di persone malate era inferiore ed il tempo vissuto in condizioni di malattia era più breve. Tuttavia, la cultura del passato aveva maggiori risorse culturali, religiose, simboliche, per dare ragione della malattia, per trovare un senso alla condizione di essere ammalato. Il paradosso della civiltà contemporanea, che ha fortemente promosso il sapere scientifico, a scapito di quello umanistico, consiste proprio in questo: la malattia è più presente, ma non si è più capaci di trovarle un senso, o per lo meno di offrirne una possibile lettura, che consenta di integrarla, in qualche modo, nel proprio romanzo biografico o, come direbbe Paul Ricoeur, nella propria identità narrativa. La malattia, in questa società secolarizzata, basata sulla razionalità scientifica, più che sulla razionalità filosofica o sui saperi di tipo religioso-sapienziale, diventa l’assurdo, il non senso assoluto.

La medicina è in grado di controllare il dolore, tramite un approccio di tipo anestesiologico, basato sull’uso di farmaci. Sul dolore la medicina è efficace, perché il dolore è un fenomeno di tipo biologico. Alla medicina, tuttavia, sfugge la sofferenza, che non è semplicemente il dolore, poiché dipende dal significato che viene attribuito al dolore, dalle sue risonanze simboliche, emotive, affettive e relazionali. Di fronte al dolore ci si trova in condizione di passività; il dolore ci colpisce e ne siamo vittime. Al contrario la sofferenza implica anche una condizione di attività, dipende da come noi viviamo il dolore, da quali significati siamo capaci di attribuire ad esso, da come reagiamo. Sofferenza deriva appunto da sub-fero, che indica il “portare sulle proprie spalle”. Il tema della sofferenza esorbita dunque dall’ambito della medicina scientifica e chiama in causa altri saperi, innanzitutto la filosofia. Per questo motivo convegni tra medici e filosofi, come quello che ha dato origine al presente scritto, risultano così importanti oggi: essi rispondono ad una esigenza molto sentita dalla civiltà occidentale contemporanea. Agli entusiasmi per i successi della medicina, oggi subentra infatti un senso di insoddisfazione per una medicina iperspecialistica, che si occupa solo del corpo o dell’organo malato e non della persona malata, così come emerge da questa testimonianza di Tiziano Terzani:

I miei medici tenevano conto esclusivamente dei fatti e non di quell’inafferrabile “altro” che poteva nascondersi dietro i fatti, così come i cosiddetti “fatti” apparivano loro. Io ero un corpo: un corpo ammalato da guarire. E avevo un bel dire: ma io sono anche una mente, forse sono anche uno spirito e certo sono un cumulo di storie, di esperienze, di sentimenti, di pensieri ed emozioni che con la mia malattia hanno probabilmente avuto un sacco a che fare! Nessuno sembrava volerne o poterne tenere conto. Neppure nella terapia. Quel che veniva attaccato era il cancro, un cancro ben descritto nei manuali, con le sue statistiche di incidenza e di sopravvivenza, il cancro che può essere di tutti. Ma non il mio!

L’approccio scientifico, razionale che avevo scelto faceva sì che il mio problema di salute fosse più o meno quello di un’automobile guasta che, assolutamente indifferente alla prospettiva di essere rottamata o accomodata, viene affidata a un meccanico, e non il problema di una persona che, coscientemente, con tutta la sua volontà, intende essere riparata e rimessa in marcia.

A me come persona, infatti, i bravi medici-aggiustatori chiedevano poco o nulla. Bastava che il mio corpo fosse presente agli appuntamenti che loro gli fissavano per sottoporlo ai vari “trattamenti”. (Terzani 2004, 15-16)

 

Questo senso di insoddisfazione si traduce, in molti casi anche nella ricerca di medicine “altre”, diverse dalla biomedicina occidentale di tipo riduzionistico, come accade anche nel caso di Terzani:

 

Innanzitutto dovevo scegliere dove curarmi e in particolare come curarmi. Chemioterapia, radioterapia, chirurgia con tutte le loro – si dice – devastanti conseguenze non sono più le sole alternative. Anzi, oggi che tutto è messo in discussione, che tutto quel che è ufficiale è visto con sospetto, che ogni autorità ha perso prestigio e che ognuno si sente in diritto, senza alcun ritegno, di giudicare tutto e tutti, è diventato sempre più di moda dir male della medicina classica e un gran bene di quella “alternativa”.

I nomi, se non altro, suonano più attraenti: ayurveda, pranoterapia, agopuntura, yoga, omeopatia, erbe cinesi, reiki, e – perché no? – i guaritori, filippini o no. (Terzani 2004, 10-11).

Indubbiamente l’Occidente ha fatto grandi progressi nel conoscere il corpo, anche se mi lascia sempre più perplesso il fatto che alla radice della nostra medicina c’è l’anatomia, una scienza fondata sulla dissezione dei cadaveri, e mi chiedo come sia possibile capire il mistero della vita partendo dallo studio dei morti. Ma l’Occidente non ha fatto nessun progresso, anzi forse è andato a ritroso nella conoscenza di tutto quell’invisibile, immisurabile, imponderabile che sta dentro e al di là del corpo, che lo sostiene, che lo lega a tutte le altre forme di vita e lo rende parte della natura. (Terzani 2004, 22).

Così, passo dopo passo, lentamente, ogni volta ridendo di me e sorridendo di quel che mi capitava, dalla cura di me-corpo, ammalato di cancro in uno dei migliori ospedali del mondo, son finito alla cura di me-corpo più tutto quell’altro-che-mi-par-ci-sia-dietro, in uno spartanissimo ashram a studiare i classici dell’induismo, a cantare gli inni vedici e a mangiare con le mani. (Terzani 2004, 21).

Quello che comprendiamo, leggendo la testimonianza di Terzani, è che la malattia non è mai solo una disfunzione di carattere organico. La malattia colpisce il corpo-oggetto, quello che Edmund Husserl chiamava “Körper”, ma affligge anche il corpo proprio, il corpo vissuto, quello a cui Husserl dà il nome di “Leib”. La prima malattia è quella che Terzani chiama “il cancro”, ovvero quello “ben descritto nei manuali, con le sue statistiche di incidenza e di sopravvivenza”. Il secondo tipo di malattia, invece, è il mio cancro, cioè il cancro così come io lo vivo, a partire dalla mia particolare identità narrativa, dalle mie risorse spirituali e culturali. Questo secondo tipo di malattia può essere descritto non tanto come una disfunzione organica, ma come un momento di crisi che colpisce il mio vissuto. La malattia infatti rappresenta un tempo di crisi, perché è un tempo nel quale il progetto di vita del singolo deve essere ripreso e modificato, perché mutano gli orizzonti temporali, le possibilità, il modo stesso di guardare alla vita, di interpretare il mondo. Il tempo di malattia è il tempo di crisi per eccellenza, perché perdere l’oggetto o gli oggetti (la vita, gli affetti, la professione), su cui si investe tutto il senso della propria esistenza, è l’essenza stessa di ciò che intendiamo per crisi, che deriva appunto dal greco krìsis, cioè separazione.

La tradizione cristiana associa la malattia alla penitenza e alla conversione, perché la malattia, così come la penitenza, ha un forte effetto demistificante e ci costringe a ritrovare l’essenziale, oltre tutti i desideri e le occupazioni futili che polarizzano la nostra vita, così come canta il poeta David Maria Turoldo in questa intensa poesia, che descrive il momento in cui gli viene disvelata la diagnosi della sua grave malattia:

            Ieri all’ora nona mi dissero:

il Drago è certo, insediato nel centro

            del ventre come un re sul trono.

            E calmo risposi: bene! Mettiamoci

            in orbita: prendiamo finalmente

            la giusta misura davanti alle cose;

            con serenità facciamo l’elenco:

            e l’elenco è veramente breve.

 

            Appena udibile, nel silenzio,

            il fruscio delle nostre passioncelle

            del quotidiano, uguale

            a un crepitare di foglie

            sull’erba disseccata.

            (Turoldo 1992, 57)

 

La malattia, esistenzialmente considerata, costituisce dunque un tempo di crisi. Ma le modalità del darsi di questa crisi sono molto differenziate. La crisi vissuta da David Maria Turoldo è la crisi di un uomo adulto, ricco di fede, che vive la malattia come premessa dell’incontro con Dio. Ma come si presenta, ad esempio, la crisi provocata dalla malattia in un bambino? Un bambino potrebbe, ad esempio, interpretare la sua malattia, la disabilità che ne deriva e la diversità, come una risposta ad un qualche suo cattivo comportamento, o al fatto di non aver obbedito. Nell’adolescente, invece, la malattia potrebbe interferire nella formazione dell’immagine di sé, potrebbe condurre all’eccessiva dipendenza affettiva dai genitori e ad una scarsa tendenza all’autoaffermazione. E poi, ogni bambino ed ogni adolescente sono diversi dagli altri bambini ed adolescenti, così come lo sono gli adulti. Insomma, se la malattia è un’occasione di crisi, questa crisi ha accenti diversi e del tutto singolari in ciascuno di noi.

La crisi, inoltre, può essere sterile oppure feconda. La crisi feconda è quella che viene al linguaggio, quella in cui il malato riesce a raccontare la propria storia a qualcun altro che l’ascolta, sfuggendo così all’insignificanza e all’isolamento. La parola costituisce dunque una parte integrante della cura, come ha compreso bene la cosiddetta “medicina narrativa”. Jean François Malherbe (Malherbe 1989), ad esempio sostiene che la medicina, per aver successo deve fare necessariamente ricorso alle risorse della parola.

Il paziente cronico spesso ha bisogno di comunicare con il personale di assistenza non soltanto della diagnosi e dei programmi di terapia, ma anche dei progetti per l’avvenire, delle problematiche relative all’attività lavorativa o alla vita personale e privata.

La comunicazione assume dunque un particolare valore ai fini del controllo della malattia, consentendo di avere ragione, nel lungo periodo, degli atteggiamenti di rifiuto, resistenza, diffidenza, che nel tempo possono sorgere.

La comunicazione ed il dialogo devono svolgersi con intensità anche all’interno dell’équipe curante e tra l’équipe curante e tutto l’enturage familiare e amicale del malato, per evitare di dare messaggi non coerenti, che potrebbero fortemente disorientare il paziente.

In conclusione: è necessario che il medico si riappropri di competenze umanistiche che facevano parte essenziale, in passato, del suo bagaglio professionale e che, nel tempo, si sono perse a favore di una forte profilatura tecnica della professione medica. Come dicevano bene i latini, infatti, “medicus enim philosophus est Deo aequalis”.

 

VIII- RIFERIMENTI  E NOTE

 

√       Brunet, Ester. 2012. La Bibbia secondo Tintoretto. Guida biblica e teologica dei dipinti di Jacopo Tintoretto nella Scuola Grande di S. Rocco. Venezia: Marcianum Press.

√       Guidorizzi, Giulio. 2000 (a cura di). Iginio. Miti. Milano: Adelphi.

√       Heidegger, Martin. 1976. Essere e tempo. Milano: Longanesi.

√       Malherbe, Jean François. 1989. Per un’etica della medicina. Cinisello Balsamo: San Paolo.

√       Scarpi, Paolo. 1996 (a cura di). Apollodoro. I Miti Greci. Milano: Mondadori.

√       Terzani, Tiziano. 2004. Un altro giro di giostra. Viaggio nel male e nel bene del nostro tempo. Milano: Longanesi.

√       Turoldo, David Maria. 1992. Canti ultimi. Milano: Garzanti.

 

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[1] Telero principale della sezione nord del soffitto della Sala superiore.

[2] Parete della Sala superiore.

Última modificación: Tuesday, 26 de October de 2021, 15:43